«Monitoriamo una filiera sostanzialmente in salute, che nel 2022 ha registrato un fatturato in aumento e un'occupazione stabile». Dario Gallina, presidente della Camera di commercio di Torino, è partito con un'immagine positiva nel presentare l'Osservatorio sulla componentistica automotive italiana, un'indagine realizzata insieme con l'Anfia. Ma se ha sorvolato sull'effetto che l'inflazione ha avuto sull'aumento del fatturato, non si è nascosto i dubbi che stanno attraversando il settore «in vista delle sfide imposte dall'evoluzione del comparto, come la scadenza 2035 per i motori endotermici, l'ingresso nel mercato dei costruttori cinesi, le scelte irrinunciabili in ambito Esg, a cui si aggiungono le preoccupazioni legate al contesto di politica internazionale».
Anche Marco Stella, presidente del gruppo componenti dell'Anfia, pur rimarcando il trend in crescita, ha sottolineato le priorità di intervento che la filiera si aspetta, a cominciare dalle «misure di sostegno agli investimenti per le riconversioni produttive». Rimandando al progetto che il ministro Adolfo Urso sta provando a mettere in chiaro per garantire un milione di veicoli prodotti in Italia, «a beneficio dello stato di salute della componentistica». Ma che per adesso è tutto sulla carta.
Leader nella brasatura
Allora può valer la pena provare a fare un punto con una delle 2126 imprese che compongono l'universo dell'indotto in Italia, dove lavorano 167 mila addetti e il fatturato complessivo sfiora i 60 miliardi. Giuseppe Scalenghe, ingegnere, da più di 40 anni è al timone della Psa di Nichelino, nell'hinterland di Torino, una delle oltre 700 aziende che in Piemonte producono componenti per auto. La sua impresa è leader nella brasatura (detta in modo semplice è una saldatura ultrasofisticata) ed è l'unica in Italia ad avere tutti i tre diversi tipi di forno (nero, bianco e sottovuoto) che vengono impiegati per questo processo. Una gamma di lavorazioni completa. Produce per conto terzi pezzi del motore. E sin dall'inizio dell'impresa – era il 1979 – Scalenghe ha guardato oltre i confini regionali. Oltre la Fiat, per essere chiari. Si è cercato le commesse altrove. E non è pentito. È uno dei fornitori delle aziende della motor valley emiliana. I pezzi prodotti nella sua azienda finiscono soprattutto in auto tedesche e francesi. Fabbrica 60 mila pezzi al giorno, circa 14 milioni di pezzi l'anno. E anche se negli ultimi anni ha scelto di diversificare trovando commesse nel campo dell'energia (si producono pezzi delle turbine per centrali) e alimentare (le lame dei rotori per le impastatrici di dolci, per esempio) l'automotive resta il business dell'azienda che fattura 3,7 milioni di euro l'anno e occupa trenta dipendenti.
Lo spauracchio 2035
Il 2035 rischia di essere una data di svolta per l'azienda di Nichelino: o si converte o deve cercare altri mercati. Nell'auto elettrica non servono i componenti che oggi vengono prodotti nello stabilimento di via San Martino della Battaglia. Scalenghe più che preoccupato è arrabbiato. «Paghiamo un errore dell'Europa. L'aver scelto di puntare la transizione ecologica tutta sull'elettrico quando sarebbe stato più logico l'opzione neutra. Ognuno sceglie di arrivare come vuole alla riduzione delle emissioni senza vincolarsi a un unico modello che sta già producendo i primi effetti. La ricerca&sviluppo sui motori diesel che è sempre stato un fiore all'occhiello dell'Italia e del Piemonte in particolare si è fermata. Nessuno investe più nel cercare soluzioni alternative all'elettrico perché tanto l'Europa, commettendo un peccato originale, ha deciso per tutti». In realtà Scalenghe pensa che non andrà a finire così. In altre parole è convinto che le auto elettriche in futuro copriranno il 30 per cento del mercato. Non di più. Fuori dalla città hanno più di un handicap. Non solo legato alle infrastrutture (cioè le colonnine di ricarica) che zoppicano. Cresceranno in modo sensibile le vetture ibride, dunque con motori endotermici. In più si augura che l'Unione europea dopo aver autorizzato i carburanti sintetici in cui eccelle la Germania dia via libera anche ai biocarburanti dove il primato è italiano, targato Eni. Consentendo così ai motori eurodiesel di nuova generazione – come Euro 6 e Euro 7 – di essere prodotti anche dopo il 2035.
L'incognità mobilità futura
E immagina che il 2026 – l'anno in cui si farà una sorta di tagliando sulla strada della conversione dai motori endotermici a quelli elettrici – segnerà una prima frenata. In realtà, il fondatore della Psa è convinto che una svolta possa già arrivare dalle elezioni della prossima primavera. Insomma, prima del 2035 tante cose possono ancora cambiare. E secondo Scalenghe sarebbe bene che l'Italia si interrogasse su quale sarà la mobilità del futuro. Quale spazio avrà l'auto tra dieci anni? «Gli adolescenti di oggi, cioè gli automobilisti di domani non hanno più la patente come primo traguardo. Hanno imparato a muoversi in modo diverso. Bisognerà tenerne conto».
E poi si augura che l'Italia torni a considerare l'auto uno dei business strategici nazionali. «Per la verità non è mai accaduto. Altrimenti quando in passato, per esempio, è stata ceduta l'Alfa Romeo, si sarebbe dovuto pretendere delle azioni in cambio, mutuando l'esempio francese. A noi è mancata e manca la golden power che esiste in altri comparti e che permette allo stato di influenzare le scelte strategiche di un'azienda senza comprometterne i risultati economici. Ricordo il no di Sarkozy quando Renault voleva andare a produrre in Romania. E' così che si difendono posto di lavoro e know how. E che lo Stato esercita la sua funzione sociale, garantendo di produrre e distribuire reddito in loco».
Il coraggio che serve
Scalenghe si aspetta anche il governo dia un impulso ai progetti di filiera. Perché ci sono ancora troppe piccole imprese in Italia e piccolo ormai è provato non è più bello. Anche il Nord Est ha cambiato filosofia. Ma per farlo bisogna aiutare sia le locomotive – imprese medio grandi capaci di imporsi anche all'estero – sia l'aggregazione tra vagoni – cioè la maggior parte delle imprese italiane – con formule diverse. «Personalmente credo che la migliore soluzione sia la fusione tra due o più società. Ma esiste sempre la solita difficoltà: mettere insieme imprenditori che devono passare dal concetto di proprietario dell'azienda a socio. Spesso insormontabile. Ma oggi il mercato si è così ampliato con la globalizzazione che non lo si può affrontare solo con piccole imprese. Dove spesso manca un atout indispensabile: governare la contabilità gestionale».
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