«Sull’elettrico l’Europa non avrà ripensamenti. Anzi è probabile che ci sia un’accelerazione nella transizione energetica di qui al 2035. D’altronde l’industria automobilistica si è orientata in questa direzione, sta investendo in modo massiccio, impensabile che torni indietro. I motori termici resisteranno per una nicchia legata all’uso di carburanti sintetici e, forse, bio. Ma, ripeto, in ogni caso sarà una nicchia. Nulla a cui le aziende della componentistica possano aggrapparsi. Quindi servirà che l’Europa si attrezzi per sostenere i costi sociali di questo passaggio».
Gianmarco Giorda, direttore dell’Anfia, l’associazione che riunisce il mondo dell’automotive – dai costruttori ai car designer, alla componentistica – non si nasconde il momento difficile, forse il più difficile di sempre, per l’industria delle quattro ruote. Che resta il principale motore della manifattura italiana anche se negli ultimi cinque anni la produzione si è dimezzata: scendendo dalle 742mila auto del 2017 alle 473 mila del 2022. Un calo che peraltro non contagia solo l’Italia: la Germania, primo produttore in Europa, ha visto scendere il numero di auto di oltre un milione, fermandosi a quota 3,4 milioni. Un calo che è più effetto di una strategia industriale che di un disamore verso le quattro ruote che come ricorda Giorda restano «il simbolo della libertà individuale». Sì, certo, la gente usa meno l’auto, soprattutto i giovani, in particolare in città dove metropolitana, bus, moto, biciclette e monopattini consentono una mobilità alternativa. Ma poi dietro il sensibile calo c’è la decisione di molti gruppi europei di produrre fuori dal Vecchio Continente e poi importare le auto. Questione di costi. Del lavoro, innanzitutto.
L'automotive vale il 5% del Pil
Così oggi i due terzi del fatturato delle oltre 5500 imprese aderenti all’Anfia (che vale il 5% del Pil nazionale) viene garantito dal settore della componentistica che mette assieme un giro d’affari di 55 miliardi e conta oltre 2mila aziende. Tutto merito della capacità di affrancarsi dall’unico costruttore che l’Italia ha avuto – che si chiamasse Fiat o Fca o, adesso, Stellantis – andando a conquistare commesse all’estero. Tanto che è seconda in Europa nonostante il Paese figuri all’ottavo posto per numero di auto prodotte. Ma adesso cambierà tutto. E un buon numero dei 70 mila addetti rischiano il posto. Perché l’auto elettrica richiede meno componenti rispetto a quelle diesel o benzina. Perché le aziende costruttrici si stanno attrezzando per far rientrare lavorazioni che erano state appaltate all’esterno per limitare l’impatto occupazionale che anche loro dovranno fronteggiare. E perché non tutte le aziende avranno le risorse e le capacità per riconvertirsi in altri settori, primo fra tutti quello aerospaziale.
Ecco perché Giorda chiede che l’Europa si faccia carico dell’impatto sociale della svolta, con un fondo che destini risorse ingenti per attutire l’impatto che già nei prossimi anni ci sarà nell’automotive. L’Italia si è già mossa con un fondo nazionale che destina un miliardo l’anno da qui al 2030 (cui vanno aggiunti i 700 milioni stanziati l’anno scorso), ma è una goccia nel mare. Serve altro «per evitare che la transizione comporti morti e feriti».«L’Europa dovrà preoccuparsi di accompagnare le aziende alla riconversione, garantendo fondi per la ricerca e lo sviluppo, l’acquisto di macchinari, la riprogettazione dei layout produttivi, la formazione del personale», spiega Giorda.
Cosa deve fare il governo
Ma la strategia dell’Anfia chiede un maggior impegno anche al governo italiano sul fronte degli incentivi: i contributi di 5-6 mila euro attuali non bastano per convincere a passare da un’auto termica a una elettrica. E poi bisognerebbe estendere i contributi anche alle persone giuridiche e alle flotte aziendali. Per cambiare davvero le percentuali del mercato italiano, dove le auto elettriche restano inchiodate al fondo della classifica delle vendite. La quota in circolazione è del 3,5% rispetto al 15% dell’Olanda, per fare un esempio. Colpa anche delle infrastrutture su cui, se possibile, l’Italia è ancora più indietro e, in più, al suo interno si divide tra un Nord Ovest più avanti e un Sud che arranca. Ma mancano infrastrutture per la ricarica – soprattutto quella veloce – in città come fuori. Non va meglio in autostrada dove i punti di ricarica sono 200-250. E poi bisognerebbe finalmente “mettere a terra” i 40 milioni stanziati per garantire le ricariche sotto casa, a livello di condominio. Tanto che Bruno Dalla Chiara, docente del Politecnico e grande esperto di trasporti, sostiene: «l’elettrico va bene solo in città». E i norvegesi sembrano dargli ragione: le auto elettriche sono assai diffuse nel Paese scandinavo, eppure sono aumentati i consumi di diesel. L’Anfia spera che una prima risposta alle sue richieste arrivi al convegno che organizzerà a metà mese – il 20 giugno – a Roma, presente il ministro dell’industria Adolfo Urso.
Cina targata Giugiaro e Pininfarina
Ma c’è un progetto a cui Giorda e il presidente Paolo Scudieri lavorano per garantire un futuro al pianeta automotive: portare un altro produttore in Italia. E gli occhi sono tutti puntati sulla Cina. Impresa improba, perché l’Italia è da tempo fuori dai radar – l’ultimo esempio lo si è avuto con Tesla, che non ha mai preso in considerazione il nostro Paese per aprirvi lo stabilimento europeo – ma indispensabile per evitare di scendere ancora sotto i livelli minimi di sopravvivenza. Che, detta in numeri, è un milione di vetture l’anno. Ora ne produciamo la metà. Perché la Cina? Perché le aziende orientali si preparano a invadere il mercato europeo con auto elettriche molto competitive – spesso disegnate da designers italiani quali Giugiaro e Pininfarina – che nulla hanno a che vedere con quelle che qualche anno fa non superavano i crash test europei. E grazie a prezzi più bassi si guadagneranno una fetta di mercato. La speranza di Giorda è che dopo 3 o 4 anni, di fronte a volumi significativi e magari a dazi simili a quelli che vengono imposti alle auto europee che sbarcano in Cina, i costruttori asiatici decidano di aprire stabilimenti produttivi in Europa. «Dovremo essere bravi a costruire un pacchetto di incentivi per rendere attraente il nostro Paese e convincerli a insediarsi qui», conclude Giorda.
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