«Non c’ è niente da stupirsi dietro l’esaurimento delle scorte di munizioni della Nato. Quella che si sta combattendo in Ucraina è una guerra ad alta intensità dove l’utilizzo del materiale bellico è molte volte superiore al tasso di produzione dei Paesi occidentali alleati. D’altronde dopo la fine della Guerra fredda la filiera è stata in buona parte smantellata, sono rimaste poche aziende. Ma ora la macchina è stata ricalibrata, la produzione aumentata e le scorte arriveranno presto».

Pietro Batacchi, direttore di “Rid, rivista italiana difesa” e grande esperto di questioni militari si stupisce di quanti si sorprendono per le difficoltà della Nato a garantire rifornimenti all’esercito ucraino. Secondo Euractiv, l’Ucraina sta sparando 5mila colpi di artiglieria al giorno, con picchi di 9mila.La richiesta più alta di scorte riguarda i proiettili da 155 millimetri utilizzati negli obici, i missili Himars, e soprattutto i colpi d’artiglieria per la contraerea, munizioni decisive per non arrendersi all’offensiva russa. Chiaro che di fronte a simili numeri l’industria bellica non sia stata in grado di rispondere dall’oggi al domani a una domanda letteralmente schizzata all’insù. Tanto che il numero uno della Nato Jens Stoltenberg a metà febbraio aveva lanciato l’allarme: «L’alto tasso di utilizzo delle munizioni da parte dell’Ucraina mette a dura prova le nostre industrie della difesa. Ad esempio, il tempo di attesa per le munizioni di grosso calibro è passato da 12 a 28 mesi: gli ordini effettuati oggi verranno consegnati solo tra due anni e mezzo».

Stoltenberg, numero uno della Nato con il presidente ucraino Zelensky

Ma poi, come ha sottolineato il commissario europeo per il mercato interno, il francese Thierry Breton, si è corso ai ripari per soddisfare le esigenze di sicurezza dell’Ucraina e dei Paesi membri della Nato. Il potenziale per farlo c’era, si trattava di sfruttarlo appieno. Così l’intero sistema di produzione militare dell’Occidente è stato adattato sulle esigenze di un conflitto ad alta intensità, combattuto su larga scala, tra due Paesi che per mentalità militare sono abituati a sparare tantissimo, soprattutto con l’artiglieria – «La dottrina originaria d’altronde è la medesima» sottolinea Batacchi – e dove dunque serve almeno un milione di munizioni l’anno. D’altronde nessun altro conflitto dopo la seconda guerra mondiale ha raggiunto l’intensità di quello che si sta combattendo in Ucraina. E nessuno sa dire quando finirà. «Il conflitto potrebbe durare ancora un po’ anche perché non c’è alcuna superiorità decisiva su entrambi i fronti» azzarda Batacchi.

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Per produrre di più si è chiesto uno sforzo economico a tutti i governi dell’alleanza occidentale, sposando la linea della Nato di raggiungere il 2% del Pil per la difesa. Una settimana fa, il primo giugno, con qualche mal di pancia tra gli eurodeputati italiani del Pd, il Parlamento europeo ha approvato un finanziamento di 500 milioni di euro per «far fronte all’attuale carenza di munizioni, missili e loro componenti». Il via libera che serviva per aumentare le capacità produttive dell’industria difensiva europea. In Italia la filiera ruota attorno a cinque aziende: «Hanno capacità nel campo del munizionamento e annessi quali teste in guerra, spolette – spiega Batacchi -: chiaro che però la risposta dell’industria degli armamenti non è paragonabile a quella dell’industria civile. Il ciclo è più lungo e diverso e soprattutto c’è un iter di certificati che prende molto tempo anche se considerata la fase di emergenza saranno compressi».

Pietro Batacchi, esperto di questioni militari e direttore di "Rid, rivista italiana difesa"

La supply chain che si rimette in moto a pieno regime in Italia comprende la Simmel di Colleferro (controllata dalla francese Nester), Leonardo Sistemi Difesa di La Spezia (ex Oto Melara), Rwm Italia di Ghedi, nel Bresciano, la Mes a Roma e la Fiocchi di Lecco (una delle più antiche e importanti produttrici di cartucce e munizioni per armi leggere). Toccherà a loro contribuire a riempire gli arsenali della Nato per questa guerra ad alta intensità dentro i confini dell’Europa che sembra non avere una fine. Con buona pace dell’Anpi, l’associazione dei partigiani che bolla la decisione dell’Unione Europea «come l’ingresso in un regime di economia di guerra».