Nel 2022 la spesa pensionistica sarà pari a 297,4 miliardi, il 15,7% del Pil. E alla fine del prossimo triennio arriverà a 349,8 miliardi, 100,3 miliardi in più di dieci anni fa. Nel 2012 - un’Italia che aveva appena introdotto la riforma Fornero per dare un segnale deciso di risanamento ai mercati all’attacco del nostro debito pubblico - dedicava alle pensioni 249,5 miliardi di euro, il 15,9% del Pil.
Su un punto però, la rivalutazione degli assegni pensionistici in base all’inflazione, il governo ha deciso di risparmiare, penalizzando gli assegni più “ricchi” (ma per i quali sono stati versati contributi, a differenza della platea degli assegni al minimo spesso erogati senza alcun versamento o con versamenti molto modesti): la stretta operata dal Governo in legge di Bilancio sulle rivalutazioni delle pensioni medie e alte (-3,5 miliardi nel solo 2023). Nel triennio, le mancate rivalutazioni ammonteranno a 17 miliardi.
Sono le stime della Cgil, contenute in uno studio del Dipartimento Politiche Previdenziali e della Fondazione Di Vittorio, che evidenzia le ricadute negative del meccanismo di indicizzazione contenuto nella legge di Bilancio che penalizza i pensionati con un trattamento pensionistico superiore a quattro volte il minimo, ossia dai 2.101 euro lordi mensili, ripristinando un sistema di rivalutazione dell’assegno collegato all’inflazione a 6 fasce (in luogo dell’attuale a 3) che assomiglia molto a quello del governo Conte 1. Va, però, ricordato che nel contempo il nuovo meccanismo “premia” le pensioni al minimo, prevedendo un’indicizzazione pari al 120%.
Rivalutando le pensioni al minimo si premiano coloro che, per la gran parte e per i più svariati motivi, non hanno versato contributi e che ora si vedono arrivare non solo una pensione, ma una pensione ampiamente rivalutata. E il tutto a danno, visto le minori rivalutazioni, di chi i contributi li ha versati eccome. Non dobbiamo infatti dimenticare che in Italia tra versamenti dei datori e dei dipendenti, ogni anno il sistema pensionistico, quale differenza tra le entrate contributive e le uscite per pensioni al netto dei 56 miliardi di Irpef che grava su poco meno della metà dei pensionati e togliendo i circa 55 miliardi di quota assistenziale, è in attivo per 30 miliardi di contributi.
In Italia 16 milioni di pensionati
“Le turbative, i colpi di mano, le sortite a cui è stata sottoposta la disciplina introdotta dalla riforma Fornero, praticamente in questi anni è stata soggetta a modifiche e deroghe, senza mai essere ‘’superata’’ del tutto con grande disdoro dei suoi acerrimi nemici, hanno lasciato il segno – spiega Giuliano Cazzola, ex parlamentare ed esperto di sistemi pensionistici - puntualmente registrato dalla Ragioneria generale dello Stato. A partire dal 2019 e fino al 2022, il rapporto tra spesa pensionistica e Pil torna ad aumentare con un picco, pari al 17% del Pil nel 2020 per poi ripiegare su un livello pari al 15,7% nel 2022, valore che è oltre 0,5 punti percentuali di PIL superiore al dato del 2018. La spesa in rapporto al Pil cresce significativamente a causa della forte contrazione dei livelli di Pil dovuti all’impatto dell’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia a partire da febbraio 2020”. Per non dire di cosa sarebbe avvenuto se il governo avesse seguito la proposta di Silvio Berlusconi di portare le minime a quota 1000 euro: avremmo speso 31 miliardi in più tutti gli anni a solo carico della fiscalità pubblica.
Intanto, i numeri ci dicono che al 31 dicembre 2021, i pensionati in Italia erano circa 16 milioni, di cui 7,7 milioni di uomini e 8,3 milioni di donne, per circa 22 milioni di assegni pensionistici. L’importo lordo delle pensioni complessivamente erogate nel 2021 è di 312 miliardi di euro. Sebbene le donne rappresentino il 52% sul totale dei pensionati, percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici. L’importo medio mensile dei redditi percepiti dagli uomini è 1.884 euro lordi, del 37% superiore a quello delle donne, pari a 1.374 euro e nel 2021, il 40% dei pensionati ha percepito un reddito pensionistico lordo inferiore ai 12.000 euro.
Il 2 per cento degli assegni finisce all'estero
L’area geografica che registra la percentuale più alta di prestazioni pensionistiche al 1° gennaio 2022 è l’Italia settentrionale con il 47,85%, al Centro viene erogato il 19,31% delle pensioni mentre in Italia meridionale e nelle isole il 30,77%; il restante 2,06% (366.226 pensioni) viene erogato a soggetti residenti all’estero. L’importo medio mensile della pensione di vecchiaia è di 1.285,44 euro e presenta il valore più elevato nel settentrione con 1.379,92 euro.
Se si guarda al rapporto tra gli italiani maggiorenni che hanno un’occupazione e quelli che percepiscono una pensione, si scopre come purtroppo l’Italia si collochi da questo punto di vista agli ultimi posti in Europa; peggio solo (dati Eurostat) Croazia, Grecia, Finlandia, Slovenia, Romania e Francia. I dati parlano infatti per l’Italia di un 46,4% di occupati contro un 22,2% di pensionati. Inutile dire che sono numeri preoccupanti, specie se confrontati con il 62,1% di occupati in Estonia e Regno Unito e il 14,3% di pensionati irlandesi, i tre Paesi che occupano le posizioni di vertice di questa particolare classifica. Sulla base degli attuali schemi pensionistici, si legge nel rapporto Working Better with Age, il numero di persone over-50 inattive o pensionate che dovranno essere sostenute dai lavoratori potrebbe aumentare di circa il 40%, arrivando nell'area Ocse a 58 su 100. In Italia, Grecia e Polonia, entro il 2050 il rischio è di un rapporto uno a uno o addirittura di più over-50 fuori dal mondo del lavoro che lavoratori.
La proposta Ocse per chi è in pensione
Di fronte al rapido invecchiamento della popolazione, l'Ocse invita i governi a promuovere nuove opportunità di lavoro in età avanzata per proteggere gli standard di vita e la sostenibilità delle finanze pubbliche. Il tutto, però, a pensioni sempre più modeste rispetto all’ultimo stipendio percepito, anche se il tasso di sostituzione (rapporto tra pensione e ultimo stipendio) è relativamente alto in Italia: secondo le più recenti stime Ocse, il tasso di sostituzione lordo è pari al 79,5%, mentre le medie per i paesi Ocse e Ue si fermano rispettivamente a 49 e 52%.
© Riproduzione riservata