«L'auto elettrica? Per ora resta un'incompiuta. Colpa innanzitutto della mancanza di infrastrutture. Soprattutto in Italia la ricarica non è facile. Così il viaggio spesso diventa una sofferenza. La ama solo chi l'ha abbracciata filosoficamente come uno stile di vita, una religione. Diverso l'impiego in città. Qui funziona, ma servirebbero più incentivi. Non solo economici. Per esempio in Norvegia consentono a queste vetture di circolare nelle corsie riservate ai mezzi pubblici. L'altro grande freno resta il costo: e i contributi statali non sono sufficienti. Come si può pensare che un automobilista che da 20 anni gira sempre con la stessa utilitaria passi a una vettura che costerebbe sensibilmente di più rispetto a quanto spenderebbe per cambiare l'auto che già ha? E, in generale, resta comunque ancora cara per diventare una vettura di largo consumo, di massa».

Roberto Piatti, classe 1961, ingegnere torinese, fondatore e amministratore delegato di "Torino Design"

Roberto Piatti, ingegnere torinese, si aspetta che la politica faccia di più per dare concretezza a una svolta radicale nella mobilità che è frutto di una scelta politica: il "Green deal" che impone nell'Unione europea lo stop ai motori diesel e benzina dal 2035. «Noi come tecnici ci limitiamo a dare risposte tecniche alle domande della politica. Però concordo con De Meo, presidente dell'Acea che non sia più possibile tornare indietro visto le ingenti risorse investite dalle case automobilistiche nell'elettrico anche se nel 2026 l'Unione europea potrà rivedere l'addio ai motori endotermici. Occorre però una strategia che possa essere modificata se qualcosa non funziona». D'altronde "Torino Design" l'azienda che Piatti ha fondato 18 anni fa e che guida come amministratore delegato lavora su commesse che nove volte su dieci riguardano modelli elettrici. Come le Vinfast, le prime auto vietnamite, che hanno conquistato la ribalta il giorno dell'esordio al Nasdaq con una quotazione record. Auto prodotte ad Hanoi ma disegnate a Villa Gualino, sulla collina torinese, sede dal 2019 di quello che a tutti gli effetti è l'ultimo centro di design indipendente, privato, a intero capitale italiano.

Ingegnere, com'è riuscito a conquistare la commessa?

«Detto che i miei primi contatti con i mercati asiatici risalgono a trent'anni fa quando in Idea Institute lavoravamo per il Giappone e l'India e poi a quando chiesi all'ingegner Mantegazza, presidente dell'Idea, di andare in Cina per cercare collaborazioni con i costruttori emergenti, nel 2017 ho incontrato per la prima volta Pham Nhat Vuong, il presidente di Vinfast. Mi fece vedere i terreni dove voleva costruire la prima fabbrica di auto del Vietnam. Lui ama il design italiano ed è convinto che abbia una marcia in più. Questione di reputazione. Per me è l'unica cosa che conta. Il passato anche glorioso vale poco. Serve competenza. Proprio per questo abbiamo da un anno avviato una scuola di formazione, la Torino Design Academy, per preparare nuove leve di car designer e modellatori digitali virtuali».

Dunque Torino resta una delle capitali mondiali dell'auto?

«Diciamo che ha una buona reputazione. Ma il mondo è pieno di centri design. Bisogna saper valorizzare un certo modo di fare l'auto. Io, per esempio, quando 18 anni fa, dopo dieci alla guida del Centro Stile Bertone, ho deciso di tentare l'avventura in proprio, ho sin da subito puntato su una task force, una soluzione snella. Un team di 60 persone motivato e competente. Solo progetto, niente fabbrica. Per i prototipi ci serviamo dei migliori costruttori per ciascun componente. Così abbiamo eliminato alcuni costi fissi. E i risultati ci hanno premiato. L'anno scorso il fatturato è cresciuto del 25% e l'Ebidta ha superato il 35%, una soglia record. Abbiamo clienti in tutto il mondo, praticamente lavoriamo quasi in esclusiva con l'estero che ci riconosce capacità uniche nel design e nello sviluppo dei modelli. Così si costruisce una reputazione».

I due suv VF6 e VF7 disegnati e progettati da "Torino Design" per la vietnamita Vinfast nel parco del Valentino

Ecco, ingegnere, oggi però le auto si assomigliano tutte. Perché?

«La verità è che si è persa l'opportunità di rivoluzionare l'architettura del veicolo con l'arrivo delle auto elettriche. Che non avendo il motore avrebbero permesso davvero di costruire modelli del tutto diversi da quelli in circolazione. Penso a vetture dove per esempio fosse più facile entrare. Ma ogni volta che è stato presentato un progetto che usciva dallo schema classico di cofano, abitacolo e bagagliaio alla fine è stato scartato. Non siamo ancora pronti a immaginare di volare su un tappeto volante».

A proposito di auto elettrica, può essere l'occasione per portare un secondo costruttore di auto in Italia indispensabile per garantire un futuro all'industria automobilistica nazionale? Magari dalla Cina o, perché no?, dal Vietnam?

«In effetti possiamo vantare molti atout: competenze, tecnologie all'avanguardia, salari bassi rispetto ad altri Paesi del Continente. Eppure spesso le aziende finiscono per scegliere la Germania anche se costa un terzo in più per le garanzie che dà. Manca in altre parole la fiducia nel Paese Italia. La politica dovrebbe impegnarsi di più per supportare gli atout che tutti ci riconoscono. Ma che da soli non bastano a convincere gli stranieri a investire qui».