«I monopoli non fanno mai bene a un Paese. C'è bisogno di concorrenza. Per crescere. Per questo mi auguro che presto in Italia possa arrivare un altro produttore di auto. Che sia Tesla vista la tappa di Elon Musk da Meloni o sia un marchio cinese che vuole venire a produrre in Europa non importa. Per più di un secolo in Italia c'è stato uno dei più grandi produttori del vecchio continente. Solo che oggi produce meno auto, tanto che il Paese è scivolato all'ottavo posto nella classifica dei costruttori. Con effetti su tutta la filiera anche se la componentistica, va sottolineato, è stata brava: a un certo punto ha saputo affrancarsi e diversificare. E infatti oggi l'Italia è il secondo Paese nella componentistica, ma serve un altro costruttore».
Antonio Casu dall'ottobre 2021 è al timone di Italdesign, la società di ingegneria dell'auto fondata da Giorgetto Giugiaro e Aldo Mantovani nel 1968 a Moncalieri, alle porte di Torino, e ceduta al gruppo Audi nel 2010. Sta guidando, con successo, la trasformazione da atelier di design e carrozzeria a un'azienda in grado di sviluppare veicoli con qualsiasi tipo di trazione, in tutto il mondo. Con filiali anche a Barcellona e Shanghai e, presto, negli Stati Uniti. Insomma, un player dell'e-mobility come prova il concept coupé totalmente elettrico appena prodotto insieme con Caterham e che sarà presentato in anteprima al "Goodwood festival of speed 2023" a metà luglio. Casu è dunque l'interlocutore giusto per approfondire l'appello del direttore generale dell'Anfia Gianmarco Giorda: «Serve un altro costruttore d'auto in Italia, puntiamo sulla Cina».
Ingegnere, oggi più di ieri non è facile attrarre un costruttore, non crede?
«Senza dubbio oggi crescono i Paesi che vogliono avere una propria industria automobilistica. Penso alla Turchia ma anche al Marocco, alla Tunisia o al Sudafrica. Ed è facile intuire perché: l'auto resta un grande creatore di posti di lavoro. Assicura benessere, contribuisce alla stabilità sociale. Però l'Italia ha le carte in regola per attrarre un nuovo produttore fosse anche solo per l'equazione tra competenze e costo del lavoro, visto che i salari sono fermi da vent'anni e la manodopera è di qualità. Serve però cambiare narrazione. Si dia più fiducia a questo Paese che ha saputo uscire bene dal Covid ed è cresciuto più di altri dopo l'epidemia».
Lei indica il Piemonte come la vehicle valley d'Italia. Vedrebbe bene un altro produttore qui?
«Ho lanciato l'idea perché in questo distretto c'è tutto. Non sono io a dirlo, ma gli stranieri che vengono a Torino da ogni parte del mondo per un progetto legato all'auto. La considerano ancora la capitale. D'altronde sono pochi i posti dove si offra l'intero ciclo, dall'ideazione alla produzione. E poi ci sono competenze solide: dagli ingegneri ai tecnici, agli operai. Tutta gente che eccelle nel mestiere del fare un'auto. Bisogna però mettere a fattore comune queste competenze per creare davvero una Vehicle valley».
Fattori che hanno convinto il gruppo Volkswagen ad acquisire Italdesign 13 anni fa?
«Senza dubbio. Ma credo che vada anche riconosciuto il merito di Giugiaro e Mantovani che quando hanno deciso di mettere in vendita l'azienda hanno puntato su un produttore d'auto piuttosto che su un fondo di investimento. E che la scelta sia stata azzeccata lo dimostrano anche i numeri. Nel 2022 abbiamo messo a segno un fatturato record, superando quota 200 milioni e siamo ancora cresciuti come dipendenti, ormai più di mille, per buona parte concentrati tra Moncalieri e Nichelino».
Quanto ha inciso il fattore elettrico su questa crescita?
«La svolta elettrica ha dato una spinta a ricavi e commesse. D'altronde lo ripeto da tempo: l'auto elettrica non è un demone, ma un'opportunità. Il mercato si allarga, non si restringe. Non c'è una tecnologia killer. Lo abbiamo visto nell'informatica: si pensava che i tablet soppiantassero i pc. Invece, convivono, spesso insieme. Semmai la cannibalizzazione può avvenire tra marchi, ma non tra prodotto. Anche nel cinema si pensava che il digitale avrebbe segnato la morte di un settore: invece sono spariti alcuni mestieri e ne sono nati altri. Non bisogna temere le novità. Anzi bisogna sfruttarle. Per esempio per trasformare parte della filiera, creare business alternativi».
Che cos'è allora che non funziona?
«Io credo si debba cambiare paradigma. Anche se i costruttori d'auto si sono lanciati verso la nuova tecnologia con grandi investimenti dai quali ora sarebbe difficile tornare indietro, tra la gente vince lo scetticismo, l'elettrico convince poco. Forse complice anche la rete delle infrastrutture che non marcia con lo stesso passo dei produttori d'auto. Ecco perché servirebbe un piano. Che, magari, punti innanzitutto alle città. Garantire la mobilità elettrica nei grandi centri sarebbe già un bel passo avanti nella lotta alla CO2 soprattutto in un'area come quella della Pianura Padana a tutti gli effetti tra le più inquinate d'Europa complice anche una particolare orografia».
Lei dà per scontato che nel 2035 in Europa i motori diesel e benzina si spegneranno per sempre?
«Precisato che non sarà proprio così perché tutte le auto con motore termico fino ad allora immatricolate continueranno a circolare. Così come pure le ibride. Ma c'è di più: lo stop riguarda solo l'Europa. Nel resto del mondo, Cina e Stati Uniti compresi, diesel e benzina non sono banditi. E non so neanche dire se la decisione della Ue sia da ritenersi così granitica. Da qui al 2035 ci saranno alcune tappe intermedie per verificare come procede la transizione. Ripeto: la mancanza di una rete adeguata di ricarica può essere un handicap. Ma bisognerà anche capire con quale energia alimenteremo le auto elettriche. Perché sarebbe inutile circolare con vetture che non emettono CO2 nell'aria ma l'energia che le fa andare avanti è prodotta in centrali con combustibili fossili. E le fonti rinnovabili non potranno mai coprire l'intera richiesta. Resta il nucleare, ma andiamo in un campo che è innanzitutto una questione politica. Per questo credo sarebbe meglio puntare a un mix di tecnologie neutre che garantiscano comunque zero emissioni nell'aria».
Che ruolo immagina per il governo?
«Ripeto, credo serva un piano in vista del 2035 che metta al primo posto investimenti per le infrastrutture. Chi viaggia con un'auto elettrica deve avere la certezza della ricarica da Nord a Sud. Altrimenti torno alla proposta di prima: si limiti la circolazione Bev ai grandi centri. Poi serviranno incentivi che permettano di avere sul mercato vetture a un prezzo ragionevole. Adesso sono ancora care».
Un vantaggio per i cinesi che sono pronti a invadere il mercato europeo con modelli che nulla hanno a che vedere con le prime vetture made in Pechino che non superavano i crash test e a un prezzo decisamente più basso rispetto a quelle dei player europei, non crede?
«Dipenderà molto dai gusti. Che sono diversi da continente a continente. Per esempio, i costruttori europei a lungo hanno provato a imporre i propri modelli in Cina. Ma alla fine i cinesi hanno optato per vetture di loro gusto. Per la stessa ragione in America una Panda non avrà mai successo. Dunque i produttori cinesi dovranno adattarsi al mercato europeo. E questo potrebbe agevolare l'insediamento di stabilimenti in Europa. L'Italia sfrutti la chance».
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