Il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 ha modificato il comma 2 bis dell'articolo 275 del codice di procedura penale imponendo di non applicare la custodia cautelare in carcere nel caso in cui il giudice  ritenga che, all'esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni.


Parliamo di questa disposizione con Fabio Roia, magistrato dal 1986, già giudice del tribunale penale di Milano, attualmente presidente di sezione del tribunale di Milano – settore penale delle misure di prevenzione, in precedenza sostituto procuratore presso la Procura ordinaria del tribunale di Milano, addetto dal 1989 al Dipartimento competente per i reati in danno di soggetti deboli (violenza e sfruttamento) e componente del Consiglio Superiore della Magistratura nella consiliatura 2006-2010, nel corso della quale ha curato, in particolare, le relazioni internazionali fra le magistrature e le riforme in materia di giustizia.

Dottor Roia, quali sono le conseguenze immediate della nuova norma?

La nuova norma è stata scritta male da un punto di vista tecnico e concede pochi spazi di intervento al giudice perché è stata inserita nella disposizione base, cioè l'articolo 275 del codice di procedura penale, che stabilisce le condizioni di applicabilità delle misure cautelari, quindi incide sul riferimento di tutto il sistema. Allo stato quindi la norma ci consente solo di fare questo tipo di ragionamento: valutare in concreto se la pena che verrà irrogata per il reato per il quale stiamo procedendo sia superiore o inferiore ai tre anni. Qualora la pena sia inferiore ai tre anni dobbiamo necessariamente non applicare la custodia cautelare in carcere.

Sul piano sistematico come s'inquadra la nuova disposizione ?

La nuova formulazione preclude ogni altra interpretazione di tipo sistematico. Secondo noi [magistrati, n.d.r.], anche all'esito di una riunione fra tutti i presidenti di sezione del tribunale di Milano, questa disposizione non consente un raccordo con l'articolo 656 (del codice di procedura penale), che è la norma che riguarda la possibilità per il pubblico ministero di sospendere l'esecuzione della pena quando vi sia una condanna definitiva a una pena detentiva inferiore a tre anni, cosicché il condannato possa chiedere di scontare la pena fuori dal carcere.

Qual è la conseguenza dell'introduzione di questa disposizione in relazione a reati, come quello dello stalking o dei maltrattamenti in famiglia, in cui sono coinvolti soggetti deboli, o nei quali comunque le persone offese dovrebbero essere destinatarie di particolari attenzione?

Innanzitutto non è da sottovalutare l'impatto con i reati legati alla microcriminalità, in cui sono compresi i furti in appartamento, i borseggi, gli scippi, i cosiddetti furti con scasso ecc. Ci sono soggetti che vengono arrestati, portati a giudizio direttissimo, e qualora questi non abbiano, per esempio, un domicilio, come spesso accade per cittadini extracomunitari o clandestini sul territorio nazionale, siamo impossibilitati ad applicare misure alternative [alla detenzione, n.d.r.]. In questi casi allo stato potremmo applicare solo l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, ma è una misura non detentiva e questo crea inevitabilmente un forte allarme sociale. Come sezione direttissime, abbiamo scarcerato, o comunque provveduto a modificare la misura, per circa 60 posizioni.

E ho fatto riferimento alle questioni che abbiamo sul tavolo, ma il problema si pone a maggior ragione quando la pena è già stata irrogata, cioè in tutti i casi, patteggiamento o sentenza di primo grado, in cui sia stata inflitta una pena inferiore ai tre anni: è certo che con questa disposizione i condannati non possono rimanere in custodia cautelare in carcere.

Mettiamoci dal punto di vista della difesa. Non ritiene che questa norma risponda a un criterio garantista di corretta applicazione della misura della carcerazione preventiva?

Sì, la finalità è questa: la finalità è quella delle porte girevoli. Si dice, o si dovrebbe dire, che una persona che non entrerà mai in carcere, non dovrebbe entrarci nemmeno in custodia cautelare. Ma questa norma [la modifica del comma 2 bis dell'articolo 275] è intervenuta in maniera scomposta e non consente un' interpretazione sistematica.

E quindi torniamo al tema delle norme tra loro scollegate.

Attualmente, per la fase esecutiva, il 656 prevede [al comma 9, n.d.r.] delle esclusioni oggettive al beneficio della sospensione della pena per alcuni reati (per esempio, il furto in appartamento non consente la sospensione dell'esecuzione della pena); altri reati ritenuti più gravi, in materia di stalking, o maltrattamenti in famiglia, non consentono la sospensione della pena.

E il giudice come decide

Se come magistrato ho tutti gli elementi per ritenere che il soggetto sottoposto al mio giudizio non andrà mai in carcere, e quindi non è un soggetto socialmente pericoloso, è corretto non applicare la custodia cautelare in carcere; ma se ho degli elementi, e fra questi anche quello per cui il soggetto non potrà nemmeno beneficiare della sospensione della pena, sono comunque costretto a non applicargli la custodia cautelare in carcere, anche in presenza di una pericolosità attuale e persistente, e impossibilitato ad applicare misure alternative. Da questo punto di vista, è stata fatta molta confusione; tant'è che dagli uffici del ministero [di giustizia, n.d.r.] giungono assicurazioni in punto di correzione della norma, proprio nel senso che dicevamo: dovrà essere consentito al giudice di fare un giudizio prognostico complessivo.

La custodia in carcere è lo strumento migliore, al di là della sua efficacia nell' immediato, per prevenire certi tipi di reato, come quelli che si sviluppano nell'ambito famigliare?

Dipende dalla situazione, in certi casi sì. Nel senso che il carcere normalmente non viene applicato in prima battuta. Però c'è un problema di progressione nell'applicazione della misura cautelare. Pensiamo allo stalking: tranne che nei casi particolarmente gravi, vengono applicate misure non detentive, come il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima. Ma in casi di violazione il soggetto autore del reato deve sapere che può andare in carcere. E anche su questo si dibatte, ci si chiede cioè se per esempio l'articolo 276 (del codice di procedura penale), che è la norma che prevede l'aggravamento della misura in caso di violazione delle prescrizioni, possa derogare al 275; noi riteniamo che, così com'è scritta, non possa derogare.

Da una prima analisi, questa norma parrebbe rispondere soprattutto alla necessità di ridurre la popolazione carceraria, sulla scia delle prescrizioni imposte dalla Corte di Strasburgo.

Credo che questa necessità sia stata valutata; la norma è stata pensata, anche in buona fede, per rispondere ad un'esigenza immediata. Si tratta però di una risposta molto miope. Perché è vero che con essa si potranno svuotare le carceri, parzialmente, con tutti i problemi che poi ci possono essere in termini di ricaduta e di percezione di sicurezza sociale, ma tra uno, due, tre mesi potremmo essere punto e a capo. Quindi, servono interventi strutturali.

Ancora una volta, quindi,  siamo sull'onda dell'emergenza, un classico della realtà italiana, ma rimane il problema della carcerazione preventiva: come potrebbe essere affrontato in chiave garantista?

Innanzitutto, personalmente, non sono un forcaiolo, però vi è la necessità di costruire più istituti di pena. Perché noi abbiamo un'edilizia carceraria piuttosto ferma e datata, anche dal punto di vista dell'accoglienza e della struttura. E' dunque il caso di investire risorse in quel settore, dato che la nostra popolazione carceraria pare essere addirittura sotto i livelli della popolazione carceraria di altri paesi d'Europa. Teniamo presente che noi abbiamo dei fenomeni associativi criminali che in altre parti d'Europa non sono presenti e gran parte della popolazione carceraria è composta da questi soggetti. Una riforma strutturale della custodia cautelare in carcere dovrebbe consentire una valutazione proprio del caso concreto.

Viene quasi spontaneo chiedere quanto concretamente sia diffusa la cultura garantista all'interno della magistratura

È una bella domanda. Bisogna capire anche il giudice che avverte l'emozione della gente. Nel senso che - parlo della mia esperienza, non mi permetto di parlare dell'esperienza dei colleghi - quando sono di turno alle direttissime, e devo giudicare, e devo scarcerare queste persone, effettivamente penso anche alla vittima, ma questo è doveroso perché comunque la tutela della vittima trova un posto importante nel nostro sistema.

La carcerazione preventiva è uno strumento di contenimento, ma è anche vero che se lasciato privo di controllo diventa pericolosissimo. Non crede?

Sì, immagino faccia riferimento alla stagione di "Mani Pulite", però disponiamo di statistiche secondo le quali, rispetto ad altri paesi europei, abbiamo il numero minore di detenuti in custodia cautelare per reati contro la pubblica amministrazione; ma forse con gli ultimi scandali sono aumentati.

Pensavo più che altro a certe forme di abuso della carcerazione preventiva cui abbiamo assistito tutti: non trova che a volte la custodia cautelare sia uno sconto anticipato di pena?

C'è effettivamente un rischio di scivolamento, per evitare il quale dobbiamo aprire un cantiere affinché il processo penale si esaurisca in due o tre anni. Questo eviterebbe lo scivolamento che, da parte del giudice, è forse più emotivo che culturale.

Quindi si tratta di una patologia connessa alla durata del processo?

Sì, bisogna lavorare sulla durata del procedimento e sui tempi di indagine.

In conclusione, l'eccessiva durata del processo è il vero nodo da sciogliere per risolvere una serie di questioni, quale la carcerazione preventiva, ma anche la prescrizione dei reati?

Non c'è dubbio. Ma è anche vero che incidere sui tempi del processo implichi una scelta di politica legislativa di maggiore attenzione sulle risorse da destinare alla giustizia.


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