L’azione che il Governo ha avviato sul tema delle liberalizzazioni ha riaperto il fronte dell’abolizione del valore legale del titolo di laurea. Nessun argomento che, come questo, anima un dibattito nazionale per oltre quattro decenni può ragionevolmente essere affrontato in poche battute: certamente, quindi, la riforma del valore legale del titolo di laurea non può essere ridotta – come spesso si fa con un certo semplicismo – a mere questioni di ammissione ai concorsi pubblici o progressioni di carriera all’interno dell’amministrazione dello Stato.
A voler guardare il tema da una prospettiva concretamente liberale – ossia muovendo dalla struttura degli incentivi che anima ogni soggetto nell’assunzione di decisioni che riguardano la propria vita alla luce del contesto normativo della comunità politica in cui vive – il superamento del valore legale della laurea contribuisce a una ridefinizione dei parametri che gli studenti di domani avranno in mente nel progettare il proprio percorso di studio e di vita. Questa ridefinizione è in corso da tempo per la verità: già oggi lo studente sa che una laurea è importante, ma non tutte le lauree aprono lo stesso numero di porte. La crisi in cui si dibatte – non da ieri, né soltanto dal 2008 – l’economia italiana ha acuito questa percezione, così come l’introduzione del sistema 3+2 ha accresciuto le opportunità di mobilità e di ripensamento in itinere delle carriere universitarie.
Non c’è dubbio, però, che sancire ufficialmente che è più importante quale laurea si abbia, rispetto al fatto di disporre genericamente di una laurea, significa far compiere un salto culturale notevole a un paese che, peraltro, presenta uno dei più bassi tassi di conseguimento di diplomi d'istruzione terziaria tra i paesi OCSE (in Italia il 20,2% dei giovani tra i 25 e i 34 anni raggiunge tale livello d’istruzione, rispetto alla media OCSE del 37,1%, così che il Belpaese si posiziona 34o su 37 Paesi – dati OCSE 2011).
Perché questo salto culturale abbia successo, occorre però un concorso collettivo serio nell’elaborazione del nuovo panorama di incentivi che dovranno motivare le future generazioni di studenti. Uno di questi risulta particolarmente importante, anche per via delle ricadute ulteriori sul sistema universitario medesimo – che tutti si auspica di veder migliorare, ma che abbisogna anch’esso di incentivi esogeni, oltre alle energie positive che può generare al proprio interno in reazione alle nuove direttive imposte dallo Stato.
Ai datori di lavoro e alle istituzioni che con essi si interfacciano va richiesto maggiore impegno nell’effettuare un reclutamento che, nella misura in cui tiene conto del percorso universitario del candidato, non segmenti l’offerta formativa nazionale sulla base dell’ateneo di provenienza (meglio un mega-ateneo di uno piccolo; o meglio un ateneo del nord rispetto a quelli del sud), bensì focalizzi la qualità specifica del Corso di laurea, che costituisce il vero progetto culturale entro il quale lo studente è formato.
Facciamo un esempio che appartiene al campo meglio noto a chi scrive: chi impostasse una selezione sulla base dell’ateneo o della città di provenienza potrebbe storcere il naso davanti a un laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche proveniente da Forlì (ossia, dal Polo di Forlì dell’Università di Bologna), magari domandandosi quale riscontro di internazionalità e ampiezza d’orizzonti possa garantire una piccola cittadina romagnola, o se un polo decentrato garantisca la medesima qualità del capoluogo. Peccato che il discorso si rovesci nel momento in cui viene valutato il merito dello specifico programma di studi, che pone Forlì ai vertici nazionali nel campo delle relazioni internazionali. Anche sull’estero vale il medesimo discorso: è puro provincialismo pensare che Oxford sia la meta ideale per qualsiasi corso di studi, specialmente a livello post-graduate (o di Laurea Magistrale, nel nostro ordinamento). Uno studente inglese che volesse studiare Archeologia medioevale, ad esempio, sa che conviene andare a Reading: il punto è che a questa scelta egli sarà incentivato anche da un contesto più maturo in ambito mediatico (il Times cura una sofisticata graduatoria dei Corsi di laurea offerti nel Regno Unito) e professionale, mentre per un italiano sarebbe meglio iscriversi comunque a Oxford – anche se la qualità fosse inferiore – perché è fondato il dubbio che un eventuale datore di lavoro nel nostro Paese non concepisca nemmeno che Reading possa offrire un Corso di laurea migliore di Oxford.
L’abolizione del valore legale della laurea deve, quindi, preludere a un ripensamento della classificazione per merito non tanto delle Università italiane tout court, quanto delle specifiche offerte formative che esse erogano. È auspicabile che si evitino confusione di ruoli e scorciatoie tanto attraenti quanto inopportune. Si è più volte citata l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) come soggetto da cui attendersi una soluzione rapida al difficile compito di stabilire criteri di qualità per il mondo universitario. Al momento, l’Agenzia è impegnata in una Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR 2004-2010) estremamente ambiziosa, complessa e importantissima. Non solo non è legittimo attendersi di più, ma, soprattutto, sarebbe un errore attribuire a questo esercizio un senso più ampio di quello che ha: la VQR prende in esame la ricerca svolta dalle università e dagli enti di ricerca, non l’offerta formativa che questi erogano. Le due dinamiche sono intimamente collegate, ma rispondono a logiche distinte.
La logica della formazione terziaria è costruire sulle basi poste dai gradi d’istruzione inferiori per raffinare un capitale umano capace di generare alto valore aggiunto nel sistema produttivo (italiano, magari). Se così è, allora ciò che si deve richiedere alle Università è non solo ricerca d’avanguardia, ma anche competenza nel veicolare i contenuti, lungimiranza nel perseguire una specializzazione mai autoreferenziale rispetto al panorama nazionale ed europeo, disponibilità a disegnare percorsi formativi innovativi per i risvolti applicativi sul mondo del lavoro, capacità di attrarre comunità di studenti fortemente plurali (per provenienza geografica, milieu culturale e, dove possibile, background intellettuale), apertura alla didattica in lingua inglese, estro nel generare un senso di appartenenza che favorisca la formazione di associazioni di alumni disponibili a reinvestire competenze e sostanze nella loro alma mater, temerarietà strategica nella proiezione didattica all’estero.
C’è da immaginarsi che statistiche costruite a partire da simili criteri fotograferebbero un sistema universitario ignoto ai più, valorizzando quelle istanze di rinnovamento tanto più meritevoli quanto più eterodosse rispetto alla tradizionale propensione del mondo universitario italiano a riprodurre se stesso e le proprie storiche competenze, anche per politiche di reclutamento costruite intorno a rapporti maestro-allievo o agende di ricerca sovente meno funzionali del dovuto alle esigenze di innovazione che negli ultimi decenni si vanno imponendo nella quasi totalità dei campi del sapere umano.
Ecco, dunque, alcuni dei risvolti sistemici di una maggior consapevolezza da parte di istituzioni, media e mondo del lavoro rispetto al dettaglio della variegata offerta rappresentata dai vari Corsi di laurea attivati dagli atenei italiani. L’incentivo alla specializzazione nell’offerta formativa e un maggior dinamismo nel reclutamento del personale docente rispetto alle esigenze di un mondo che cambia – utile integrazione di metodo rispetto a logiche primariamente focalizzate sulla ricerca, sovente caratterizzata da tempi lunghi, soprattutto nelle scienze umane e sociali – possono dare un altro significato all’idea di “merito” e incrementare su più solide basi la mobilità degli studenti all’interno del paese (dopo la fine del servizio militare di leva, forse l’unica politica possibile a presidio della diffusione di una cultura autenticamente nazionale).
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