1. Le azioni si giudicano dalle loro conseguenze. Chi agisce senza pensare alle conseguenze delle proprie azioni si mette nelle mani del destino, e il destino sovente non perdona. 

2. C’è un aspetto del Decreto legge Crescita 2.0 del 4 ottobre scorso che pare rivolgersi al futuro senza curarsi troppo delle conseguenze delle norme introdotte. Non mi riferisco alle parti in cui vengono promossi il completamento o la realizzazione di nuove infrastrutture per la banda larga e superlarga o gli incentivi che intendono creare nuove imprese innovative. Entrambe le iniziative paiono encomiabili. Mi riferisco piuttosto a quella parte del Decreto che recepisce in Italia l’Agenda digitale europea. Per quanto si tratti di un atto dovuto, l’introduzione di queste norme in Italia imporrebbe qualche cautela. Gli effetti potrebbero essere l’opposto di quelli desiderati.

Ma che cos’è l’Agenda digitale che il decreto intende perseguire? In buona sostanza si tratta di digitalizzare l’amministrazione pubblica (PA). Il Decreto prevede che a breve tutte le comunicazioni fra PA e cittadino avvengano obbligatoriamente per via telematica. Per far ciò il Decreto impone la convergenza di tutti i dati personali di un cittadino in un unico file. Non vi sarà più il documento d’identità e il tesserino sanitario, ma un unico documento telematico che li assomma. Verso questo file verranno convogliate le ricette mediche e le cartelle cliniche, i dati anagrafici, le comunicazioni giudiziarie, e ogni anno, con la totalità di questi dati, verrà redatto un censimento della popolazione che tenga conto del domicilio e della residenza, dei vani occupati e della loro disposizione.  

Tutti questi dati sono teoricamente già in possesso della PA. Nessun problema dovrebbe quindi derivare dalla loro digitalizzazione. Questa procedura anzi renderebbe la PA più efficiente velocizzando le procedure. Purtroppo non è così, e il fatto che nessuno pensi alle conseguenze della procedura di digitalizzazione – che cosa accade a seguito della trasformazione dei documenti in dati – mostra ancora una volta quanto sia difficile pensare l’epoca in cui viviamo.

Il primo problema che comporta la digitalizzazione obbligatoria della PA deriva da una falsa premessa. Non è vero che rendendo più veloce l’espletamento delle procedure burocratiche si ottiene una burocrazia migliore. Non è velocizzando un lavoro mal impostato che si re-imposta quel lavoro per il meglio. Il problema della PA italiana non è la lentezza. La lentezza è l’effetto del problema, non la causa. La causa è la cattiva impostazione. Ci sono troppe leggi da rispettare e troppe norme da evadere il cui senso si perde nella notte dei tempi. Se si velocizza una pratica mal impostata, non si produce innovazione ma si moltiplicano per mille gli effetti negativi della cattiva gestione. Prima di digitalizzare le procedure della burocrazia italiana queste procedure andrebbero ricalibrate al presente, semplificate e orientate verso il futuro. 

Le comunicazioni fra INPS e cittadino avvengono già obbligatoriamente in rete. Il risultato non è stata la trasparenza comunicativa, ma il massiccio impiego da parte degli utenti dei servizi resi dai Patronati gratuiti, gli enti a cui moltissimi dei pensionati digiuni di informatica si sono rivolti per comunicare con chi dovrebbe fornire loro un servizio. Digitalizzare obbligatoriamente la PA è far finta che il problema del digital divide non esista, dando per scontato che una volta completate le infrastrutture tutti avranno accesso alla rete. Non accadrà né ora né mai. È bene dircelo prima di usare troppo spesso e in maniera troppo rigida la parola “obbligatoriamente”. Come dimostra il tentativo fallito di fornire a ogni cittadino statunitense un tesserino elettorale, anche nelle società a più alta digitalizzazione raggiungere il 100 per cento della popolazione rimane una chimera.

Il secondo problema deriva dal fatto che non si risparmia affatto abolendo il cartaceo per concentrare in un unico file digitale tutti i dati di un cittadino. Ciò che la digitalizzazione comporta è il trasferimento di un costo dalla PA al cittadino. Chi riceve una mail dalla PA la stampa, non avendo modo di conservarla in sicurezza. Ma poi il vero problema è che neppure la PA ha modo di conservare i file in assoluta sicurezza senza spendere una fortuna nello stoccaggio dei dati in clean rooms protette 24 ore al giorno per sette giorni la settimana. In costante back up, questi dispositivi di memoria si reggono sul principio che non c’è nanosecondo in cui qualcuno non tenti di superare le difese cibernetiche di qualcun altro alla ricerca dei preziosissimi dati d’identità personale attorno ai quali si confezionano le truffe più colossali. Far finta che questo problema non esista e che non stampando i documenti si risparmia carta è una minaccia per la sicurezza nazionale. Meglio conservare le informazioni personali su supporti non immediatamente accessibili in rete e distribuiti in più archivi digitalizzando il minimo indispensabile all’espletamento telematico di pratiche snellite. È infinitamente più sicuro.

E qui veniamo a un terzo problema. La digitalizzazione dei documenti in dati comporta il mutamento radicale delle informazioni contenute nei documenti. Questo mutamento deriva dal loro convergere in tempo reale in un punto di uno spazio che non è più quello dell’archivio ma è il luogo ubiquo dalla rete. È per questo che i dati vanno difesi notte e giorno al contrario dei faldoni cartacei che giacciono negli archivi. Ed è a questo punto che dobbiamo porci una domanda che riguarda il nostro futuro come società. Ha senso procedere alla convergenza di così tanti dati sensibili in un unico punto aperto in rete? “È il prezzo da pagare alla modernizzazione”, si dirà. Ma siamo sicuri di aver riflettuto bene su dove stia la pubblica utilità in questo campo? Che senso ha illuminare dall’alto una intera società esponendo alla vista chiunque, ovunque, e in qualsiasi istante? Siamo sicuri che le entità statali costruite nell’epoca di Gutenberg siano in grado di reggere all’impatto generato dall’incessante flusso di dati in tempo reale? Se il punto in cui tutti i dati di tutti i cittadini convergono in rete è lo Stato, e lo Stato è retto da chi lo governa, ossia dai rappresentanti della volontà popolare, siamo sicuri che chi governa lo Stato sia in grado di reggere alla tentazione di non usare questi dati per manipolare in tempo reale la volontà popolare? Quali protezioni ha il cittadino di fronte a uno Stato che sa tutto di ciascuno nel secondo stesso in cui accade?

Si dice che con la digitalizzazione scomparirebbe l’evasione fiscale perché i dati personali potranno facilmente essere incrociati con i dati relativi all’uso – anch’esso a breve obbligatorio – della moneta elettronica. Può darsi. Ma a che prezzo? Fermo restando che il modo migliore per debellare l’evasione è rendere ogni spesa scaricabile dalla dichiarazione dei redditi, e non la sorveglianza continua dei conti correnti, è davvero libero un cittadino di cui lo Stato sa tutto di tutti istantaneamente? È lecito dubitarne, quantomeno per principio di precauzione.

3. La totale illuminazione della società dall’alto è uno dei sogni ingenerati dallo sviluppo tecnologico e la sindrome dell’onnipotenza è ben conosciuta da chi studia la storia della tecnologia. Chi sogna questi scenari va bruscamente svegliato prima che il suo sogno si tramuti in incubo per intere popolazioni. Il giorno in lo Stato sapesse tutto di noi in tempo reale sarebbe il giorno in cui cessiamo di essere liberi, perché essere liberi significa poter scegliere fra il bene e il male in totale autonomia. Non significa fare obbligatoriamente il bene perché qualcuno di lassù – credendosi un dio – per il nostro bene ci osserva.

La piega burocratica che sta prendendo l’Unione Europea non sorprende visto che in fondo si tratta di una enorme burocrazia. A raddrizzarla dovrebbe esserci la politica, la quale però, per debolezza strutturale o semplice ignavia, sembra impegnata ad avallarne ogni azione. Pare sempre più urgente invece riprendere in mano le redini politiche dell’Unione, prima che questa istituzione venga vissuta dai cittadini come un mero strumento di vessazione burocratica. L’Europa siamo noi, o non è nessuno.