Come tutte le estati, anche quella che sta terminando presenta un conto per quel che riguarda le morti in montagna. In queste settimane i giornali hanno raccontato questi fatti di cronaca enfatizzandone, come di consueto, gli aspetti tragici e fornendo analisi generalmente superficiali del fenomeno. Poiché, però, quello delle morti in montagna rappresenta un problema per la collettività, soprattutto in termini di costi (dei soccorsi, per esempio), ha senso riflettere in modo sistematico sulla questione e chiedersi se, in un società come la nostra, in cui è garantita l’assistenza a chi si trova in difficoltà anche in zone selvagge come quelle alpine, sia giusto che le persone possano rischiare la propria vita per la conquista di una vetta senza curarsi delle conseguenze di un loro eventuale tragico fallimento.
1. Nei mesi estivi siamo abituati a sentire notizie riguardanti la morte di alpinisti coinvolti in ascensioni, più o meno impegnative, su tutto l’arco alpino. Anche quest’anno alcuni episodi particolarmente eclatanti hanno riportato alla ribalta la questione della pericolosità dell’alpinismo e, di conseguenza, della sua ammissibilità. C’è stata la tragedia del Gran Zebrù, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale, dove a giugno ben cinque persone hanno perso la vita lo stesso giorno. Numerosi sono stati anche gli incidenti sul Monte Rosa e, infine, anche sua maestà il Monte Bianco è tornato a far parlare di sé quando due turiste piemontesi sono morte per il cedimento di un seracco sulla via normale francese .
Davanti a storie tanto drammatiche, sembra inevitabile porsi il problema della legittimità: assumere rischi così elevati per se stessi è giustificabile? Il punto di vista da cui cerco di pormi questa domanda non è strettamente - o solamente - morale, non mi interessa cioè solo capire se sia una cosa responsabile il fatto di perseguire una passione tanto rischiosa. Al contrario, credo sia fondamentale capire se la pratica dell’alpinismo sia giustificabile dal punto di vista politico, ovvero rispetto ai costi che questa pratica comporta.
Per capire meglio il problema, ha senso chiarire determinati fatti che non vengono messi solitamente in luce quando si parla di morti in montagna. La prima considerazione ha a che far con i numeri. Ogni anno, per il modo in cui ne parlano i quotidiani italiani, sembra che il numero di incidenti sia sempre in aumento. Si tratta di una informazione scorretta, o comunque poco chiara. Leggendo i report dell'AINEVA, Associazione Interregionale Neve e Valanghe, si evince che negli ultimi anni il numero di incidenti è diminuito, nonostante un generale aumento delle persone che si muovono per le montagne e un incremento di interesse per il turismo montano.
La seconda considerazione riguarda la pratica dell’alpinismo di per sé, ovvero il fatto che si tratta di una attività per sua natura rischiosa perché riguarda un ambiente selvaggio e pericoloso. Per capire meglio, ha senso distinguere tra due categorie di pericoli: quelli oggettivi, dovute alle circostanze naturali che l’alpinista si trova ad affrontare (condizioni metereologiche, caduta di pietre, valanghe, ecc); e quelli soggettivi che, invece, hanno a che fare con le persone stesse (impreparazione fisica e psicologica, impreparazione tecnica, imprudenza, eccetera). È chiaro che capacità ed esperienza sono due requisiti importanti perché in una stessa situazione un alpinista esperto corre un rischio minore rispetto a uno inesperto. Il rischio residuo è però molto difficile da valutare perché dipende da numerosi fattori, che non sono necessariamente sotto il controllo dei singoli. Poiché l’alpinismo è un’attività che si svolge in un ambiente selvaggio, non può essere, per sua natura, scevra da pericoli.
Se quindi l’alpinismo è un’attività in cui un rischio residuo è ineliminabile, è giusto che le persone scalino le montagne? O più in generale, quand’è che il rischio connesso a una determinata attività rende questa stessa sbagliata? È importante capire che sebbene qui mi interessi un problema specifico, dal sapore estivo si potrebbe dire, si tratta di una domanda molto più generale, che comprende una categoria ben più ampia e variegata di attività, come per esempio il giornalismo di guerra. Non è detto che risposte che valgono per i problemi posti dall’alpinismo possano essere applicati in altri campi, ma sicuramente gli interrogativi sull’ammissibilità politica e sociale del rischio sono simili.
2. Una prima risposta alla domanda se attività rischiose come l’alpinismo siano giustificabili riguarda gli individui stessi e la loro razionalità. John Rawls, nel suo famoso libro Una Teoria della Giustizia, sostiene che un requisito fondamentale di razionalità per vivere una vita buona è la prudenza. L’argomento di Rawls dice esplicitamente che la nozione stessa di persona racchiude in sé l’idea che gli esseri umani sono animali razionali capaci di formulare un piano di vita. In questo senso, essere una persona razionale significa utilizzare prudenza nel prendere decisioni che riguardano la propria vita.
Del resto, sembra abbastanza scontato pensare che una audacia incontrollata o una temerarietà senza misura siano caratteristiche che poco hanno a che fare con la razionalità: mettere a repentaglio continuamente la propria vita non sembra il modo migliore per contribuire al proprio progetto di vita. Bisogna, però, cercare di capire se prendere parte ad attività che per loro natura comportano dei rischi significa agire in modo imprudente. Non credo, infatti, sia questo il caso. Possiamo dire che ci sono modi prudenti e modi imprudenti con cui affrontiamo determinate pratiche. Per esempio, sono un’alpinista imprudente se non tengo conto dei pericoli oggettivi che una particolare ascensione comporta e, per conseguenza, non indosso il casco salendo una parete in cui si possono verificare delle scariche di pietre. Allo stesso modo, sono un’alpinista imprudente se non tengo conto dei pericoli soggettivi e, per esempio, non sono consapevole delle mie capacità tecniche o del mio allenamento fisico e decido di intraprendere escursioni che sono fuori dalla mia portata.
Viceversa, è assolutamente possibile essere alpinisti prudenti. Anzi, si potrebbe dire che è moralmente sbagliato essere imprudenti e mettere a repentaglio la propria vita, ma non lo è intraprendere un’attività pericolosa conoscendone e padroneggiandone la natura. Questo certo non significa che cimentarsi in avventura con prudenza non comporti dei rischi, ma è molto importante distinguere quegli incidenti che sono dovuti all’avventatezza delle persone da quelli che, invece, sono dovuti semplicemente al caso, alla sorte. Se vengo travolta da una valanga staccatasi in un giorno il cui bollettino meteorologico segna un pericolo modesto e non ho fatto niente per provocarla, non posso certo essere considerata imprudente. Se, però, non ho con me le attrezzature tecniche per farmi localizzare e, quindi, salvare la mia condotta è condannabile e sbagliata, perché irresponsabilmente imprudente.
3. La sorte gioca quindi un ruolo fondamentale negli incidenti in montagna, come in tutte le attività rischiose, e la prudenza delle singole persone non basta a eliminare i pericoli. Siccome queste attività hanno dei costi sulla società, ha senso chiedersi se esse siano giustificabili dal punto di vista politico. La domanda è se sia giusto che siano erogati servizi, come quello di soccorso e ricovero, per persone che intraprendono attività rischiose per un fine ricreativo. Il problema è particolarmente spinoso se si pensa che in alcuni casi le misure per prestare soccorso possono costituire esse stesse un pericolo per i soccorritori, come è successo in Trentino qualche anno fa.
Un primo punto da considerare ha ovviamente a che fare con la libertà dei singoli di decidere per loro stessi. Al di là della impraticabilità di una norma che impedisca alla persone di scalare le montagne (o cimentarsi in attività analoghe), sembra che impedire una delle libertà fondamentali, come è quella di movimento, sia semplicemente sbagliato. L’autodeterminazione dei singoli passa anche attraverso la possibilità di disporre dei propri programmi. Uno stato che impartisse liste di attività perseguibili e non sarebbe chiaramente illiberale e autoritario. Portando l’argomento alle estreme conseguenze, si potrebbe dire che proibire attività rischiose sarebbe come proibire alle persone di suicidarsi. Questo non è solo intuitivamente sbagliato, ma costituisce anche una limitazione dell’autonomia degli individui e della loro capacità di disporre del proprio corpo e della propria vita.
Sebbene quindi sia non solo impraticabile, ma anche poco desiderabile proibire attività rischiose, questo significa che tutti hanno sempre e comunque diritto al soccorso quando si cimentano in attività di questo tipo? Credo sia importante pensare che persone deliberatamente imprudenti debbano ripagare i costi dell’aiuto che richiedono. Una condotta irresponsabile non deve poter sfruttare un servizio di solidarietà umana. Allo stesso modo, è fondamentale che le persone del soccorso alpino siano libere di valutare quando e quanto mettere a rischio la propria vita per salvare altri alpinisti in difficoltà. Da questo punto di vista, è fondamentale che ciascuno possa rifiutare un soccorso se non ci sono le condizioni e, soprattutto, che esistano chiare regole di ingaggio, a differenza della situazione attuale. Regole e linee guida da seguire per capire quando intervenire e quando, invece, è troppo rischioso non impediscono la valutazione delle circostanze caso per caso, che deve essere sempre a discrezione dei singoli o di un responsabile. Il punto importante è che non si può slegare la garanzia della libertà di movimento dalla libertà di ciascuno di non rischiare per se stesso.
Infine, poiché la distinzione tra intraprendere attività rischiose in modo prudente e in modo imprudente è significativa, potrebbe avere senso difendere una norma che permetta il controllo, da parte della polizia o delle guardie forestali, del materiale e della preparazione degli alpinisti che intraprendono delle ascensioni. Il punto è che se è vero che alcuni rischi non possono essere eliminati, la deliberata e imprudente messa a rischio della propria vita è moralmente sbagliata perché potrebbe richiedere l’aiuto da parte di altri. In questo contesto, un obiettivo fondamentale deve essere quello di infondere una cultura della prudenza, che rappresenta un bilanciamento fondamentale per garantire la libertà di chi è appassionato di attività rischiose.
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