Nelle ultime settimane anche in Italia si è iniziato a parlare di regolamentazione della libertà di espressione su internet, in particolare su blog e social network. Ma siamo sicuri che le ragioni invocate a giustificazione di un tale intervento legislativo siano quelle giuste? Ha senso una legge di questo genere?

 

1. La miccia che ha acceso il dibattito sulla regolamentazione del web in Italia è stata l’intervista rilasciata dal Presidente della Camera e apparsa sul quotidiano La Repubblica il 3 maggio scorso. Nei primi giorni di maggio, infatti, Laura Boldrini aveva denunciato gli insulti e le minacce ricevute su internet, e moltiplicatesi all’indomani della sua visita alla comunità ebraica, nel corso della quale parlò di ripristino ed estensione su internet della legge Mancino contro l’odio razziale. Le questioni sollevate nell’intervista dall’onorevole Boldrini sono principalmente due.

La prima è una questione di genere: poiché molti commenti e immagini che le sono stati indirizzati erano a sfondo sessuale e violento, Boldrini ha voluto enfatizzare un problema culturale legato al modo in cui le donne, in generale, sono viste e percepite in Italia.

La seconda, invece, riguarda il delicato rapporto tra libertà di espressione e rispetto degli altri e le regole che dovrebbero garantire un equilibrio tra questi due valori nel contesto della rete. In quanto segue, mi concentro esclusivamente sul secondo dei problemi messi in luce dal Presidente della Camera che, a mio avviso, può essere a buon diritto inserito nel dibattito sugli hate speech e, più in generale, in quello riguardante i confini della libertà di espressione.

Un0 hate speech è un atto di comunicazione, orale o scritto, in cui una persona viene denigrata in quanto membro di un determinato gruppo di persone. In altre parole, si tratta di un discorso mirato a denigrare una persona in base all’appartenenza a un gruppo etnico, alle preferenze sessuali, o al genere. In questo senso, uno hate speech è discriminatorio non perché semplicemente offensivo. A essere attaccate, infatti, non sono le azioni di singoli individui, ovvero quello che essi fanno, ma al contrario quello che gli individui sono: neri, omosessuali, donne, ecc. Chiaramente, il problema dello hate speech riguarda la pericolosità di tollerare la libera circolazione di discorsi e idee che possano incitare alla violenza e instillare convinzioni pregiudiziali nei confronti di gruppi minoritari all’interno della società. Se è vero che in una società liberale e democratica la libertà di espressione deve essere garantita, è altrettanto vero che tutti i cittadini devono essere tutelati da potenziali discriminazioni.

Quello sullo hate speech non è quindi un dibattito nato con internet e i social network. Al contrario, si tratta di un problema classico delle società liberali, problema che è stato affrontato in modo diverso negli Stati Uniti e in Europa, a seconda delle diverse concezioni più o meno restrittive della libertà di parola.

Notoriamente negli Stati Uniti è il Primo Emendamento a garantire la libertà di espressione, e la giurisprudenza americana ha stabilito che la parola non cessa di essere costituzionalmente protetta solo in virtù del suo essere offensiva o lesiva dell’onore e dell’identità di altre persone. In questo contesto, frasi razziste sono tollerate, purché queste mantengano la loro natura apologetica e non assumano il tono dell’istigazione violenta. La ragione che soggiace a questa concezione della libertà di espressione riguarda la convinzione che sia meglio tollerare il razzismo piuttosto che lasciarlo crescere nell’ombra e, soprattutto, che beneficiando della libertà, gli intolleranti possano persuadersi dell’importanza della libertà stessa e della necessità di una società giusta per tutti. Un esempio paradigmatico della prospettiva statunitense è quello dello Skokie Affair. Nel 1977 la Corte Suprema annullò, in nome della libertà di espressione, il provvedimento emesso dalle autorità municipali della cittadina dell’Illinois in cui veniva vietato lo svolgersi di una manifestazione neonazista, che per di più aveva in programma di passare in un quartiere densamente popolato da ebrei, molti dei quali sopravvissuti all’Olocausto.

L’approccio europeo agli hate speech è più restrittivo rispetto a quello statunitense. Sebbene l’articolo 10 della Convenzione Europea dei diritti umani non proibisca direttamente l’espressione di tesi e convinzioni revisioniste, negazioniste, o discriminatorie, la Corte Europea dei diritti umani offre una serie di parametri per giudicare se una particolare espressione possa essere considerata una forma di hate speech. Inoltre, è importante notare che gran parte dei paesi dell’Unione prevedono una regolamentazione sugli hate speech e in paesi come il Belgio, la Danimarca, la Francia, la Germania, la Norvegia, l’Olanda sono previste sanzioni contro questo tipo di azioni.

2. Le due strategie, quella statunitense e quella europea, si posizionano dunque in punti diversi del compromesso libertà-sicurezza: la prima è più spostata sul valore della libertà, la seconda più su quello della sicurezza. Ma quando parliamo di hate speech su internet, quale strategia è meglio adottare? Il problema degli hate speech sul web o sui social network è diverso da quello classico degli hate speech in generale?

Una prima considerazione importante riguarda il fatto che attualmente non esistono specifiche normative internazionali circa la libertà di espressione su internet. Come racconta Jeffrey Rosen, per risolvere il problema di giudicare quali espressioni siano da considerarsi inammissibili, grandi aziende come Google e Facebook hanno selezionato un gruppo di deciders scelti per indicare una serie di norme per l’utilizzo dei social network. Da questo punto di vista, le politiche interne variano da network a network: Youtube vieta esplicitamente gli hate speech; Facebook ammette messaggi che potrebbero rappresentare una minaccia, se e solo se sono espressi con chiari fini umoristici e satirici; Twitter, infine, non vieta gli hate speech.

Postare una foto di Hitler è una forma di razzismo o di espressione politica? Alterare una foto di qualcuno con photoshop e condividerla su Facebook è un atto di bullismo? Postare una foto di una pistola costituisce una minaccia? Il punto è che internet non solo richiede una valutazione su discorsi e immagini che vengono resi pubblici, ma richiede una valutazione continua su un numero sterminato e incessante di nuovi commenti, post, ecc. Se il mondo in cui ci troviamo a vivere è tale per cui chiunque può pubblicare contenuti di ogni genere e tipo sulla rete, controllare preventivamente tali contenuti è semplicemente impossibile. Per capirci, su Youtube ogni minuto vengono postate cento ore di video. Inoltre, l’enorme potenzialità di internet risiede anche nel fatto che ciò che viene rimosso da una parte, rispunta da un’altra. Data questa impossibilità oggettiva di controllo, i social network più importanti hanno deciso di affidarsi al sistema delle segnalazioni degli utenti.

Un secondo aspetto interessante del rapporto tra internet e legislazione sugli hate speech riguarda il fatto che internet si estende ben al di là dei confini geografici dei singoli stati. Dal 2012, Twitter ha introdotto delle regole di utilizzo del social network basata su un criterio di censura selettiva. Quando si verifica una richiesta formale e giustificata, la società può oscurare quei tweet che violano le leggi di una determinata nazione, ma soltanto in quella nazione. In questo caso, i messaggi rimangono visibili dal resto del mondo e inaccessibili (salvo un cambiamento nelle impostazioni dell’account) solo nel paese in cui la segnalazione è stata fatta. È questo il caso dei famosi tweet antisemiti in Francia con l’hashtag #unbonjuif.

3. Queste due circostanze pratiche (a cui potrebbero aggiungersi altre con il modificarsi della tecnologia e del tipo di comunicazioni future) rendono il problema degli hate speech più complicato da gestire rispetto al passato. Ciononostante, il cuore del problema rimane sempre il difficile bilanciamento tra esigenze di libertà ed esigenze di sicurezza.

Ovviamente, l’approccio europeo, più votato a proteggere i cittadini, è più efficace nel garantire l’integrità e fermare possibili derive violente, ma al prezzo di un maggiore controllo e diminuzione della libertà dei singoli. Tale prezzo sembra particolarmente elevato se si considera che per molte persone servizi come quelli forniti da Google, Facebook, Twitter o la partecipazione a discussioni su blog e giornali sono diventati strumenti fondamentali di espressione e discussione politica.

Allo stesso modo, l’approccio statunitense permette un maggiore scambio democratico, la possibilità di discutere tutte le idee in campo (e quindi anche di smascherare quelle sbagliate) e garantisce una maggiore libertà per i cittadini, ma è più vulnerabile dal punto di vista della sicurezza. Quello che è successo con la pubblicazione del video “L’innocenza dei Musulmani” e le conseguenti proteste violente in Nord-Africa e in molti paesi mussulmani è, in questo senso, emblematico. Si tratta ovviamente di un compromesso instabile: sicurezza e libertà sono valori fondamentali per il mantenimento di società democratiche che, in questo caso, non si possono avere in eguale misura. È necessario scegliere quale dei due valori è più importante e da difendere più strenuamente. Da un punto di vista liberale, si tratta di capire, seguendo il principio del danno di John Stuart Mill (ovvero l’idea che lo stato possa interferire con la libertà degli individui solo quando la loro azione comporta un danno per gli altri), cosa possa essere effettivamente considerato “danno”.

Se quello dello hate speech era un problema controverso anche prima dell’avvento di internet e della possibilità di comunicare facilmente e senza controlli come accade oggi, ora le cose non sono più così semplici. Poiché trovare un compromesso tra libertà e sicurezza non è e non è mai stato banale, ancora di più in un mondo dove il web e i social network sono diventati così pervasivi e diffusi, è illusorio pensare di poter evitare preventivamente problemi e contraddizioni. Ancora più velleitario è pensare che possano esserci scorciatoie tecnologiche capaci di aggirare questi ostacoli.

Da questo punto di vista, la strategia più efficace in situazioni così complesse e praticamente difficili da gestire è quella di giudicare caso per caso, consapevoli dei diversi, ma ugualmente irrinunciabili valori in gioco. Questo non significa che alcuni principi fondamentali, quali il rispetto degli altri e l’inammissibilità della discriminazione, non possano essere scritti e mantenuti come limiti fondamentali alla libertà individuale. Allo stesso tempo, però, la complessità delle circostanze particolari in un contesto come quello di internet non possono che richiedere giudizi e analisi particolari e non leggi generali che, inevitabilmente, non riuscirebbero ad avere presa e a catturare la varietà delle situazioni possibili.