All’inizio del 2018 il mondo temeva che Corea del Nord e Stati Uniti sarebbero entrati in guerra. Oggi, il Presidente Trump annuncia l’ambizioso progetto di riunificare le due Coree.

Chi vuole la riunificazione della Corea?

Bizzarrie della situazione internazionale: all’inizio del 2018 il mondo si chiedeva con il fiato sospeso se davvero ci sarebbe stato un conflitto (con molte probabilità anche nucleare) tra Corea del Nord e Stati Uniti, che avrebbe inevitabilmente coinvolto pure la Corea del Sud. Dopo appena un semestre, complici le “Olimpiadi della pace” svoltesi nel Sud, a PyeongChang, un autentico prodigio sembra si stia materializzando: prima l’incontro cordialissimo tra il presidente del Sud, Moon Jae-in, e il dittatore del Nord, Kim Jong-il; poi l’avvio di una serie di colloqui per migliorare i rapporti bilaterali, a partire dall’economia; quindi la disponibilità di Pyongyang a discutere la denuclearizzazione della penisola, rinunciando al proprio arsenale atomico; da qui i ripetuti viaggi preparatori del neo-segretario di Stato americano Mike Pompeo da Kim e di questi in Cina da Xi Jinping; infine i preparativi per un prossimo vertice tra il leader nord-coreano e il presidente americano Donald Trump. Questo attivismo frenetico intorno alla Corea ha ridato attualità, dopo anni di oblio, a un’ipotesi suggestiva: è davvero in procinto di partire il treno della riunificazione coreana? E ha probabilità di finire felicemente il viaggio?

Per cercare di rispondere alla duplice domanda, occorre partire dal contesto politico in cui è maturata la spaccatura della Corea e chiedersi a chi fa eventualmente comodo che questo stato di cose si perpetui. Per questo bisogna risalire alla fine della II Guerra mondiale, con la divisione del Paese avvenuta nel clima di contrapposizione frontale tra Est e Ovest frutto della Guerra fredda: il Nord sotto controllo sovietico e il Sud sotto influenza americana, cui sono seguiti tre quarti di secolo di ostilità assoluta. Ma soprattutto è risultato cruciale, per incancrenire la situazione di stallo, il tentativo di Pyongyang di conquistare l’intero Paese mediante un’invasione militare scatenata nel giugno 1950, con un conseguente conflitto durato tre anni che rischiò a più volte di trasformarsi nella “III Guerra mondiale” (con il Sud, sotto la bandiera delle Nazioni Unite, si schierarono truppe di ben 16 Paesi, per un totale di 1,2 milioni di soldati; con il Nord scesero in campo quasi 800mila soldati cinesi, un numero superiore agli stessi 750mila effettivi mobilitati da Pyongyang) e il cui prezzo, tra morti e feriti, ammontò a due milioni di militari e ad altrettanti di civili.

Una simile “guerra civile internazionalizzata” non poteva non lasciare profondissime ferite, in parte tuttora aperte. La crisi scaturita lo scorso anno dal rapido riarmo missilistico e nucleare di Pyongyang e la risposta assai dura dell’amministrazione Trump hanno costretto la Cina a uscire allo scoperto, aderendo alla campagna di sanzioni economico-finanziarie varate dall’Onu ma, nel contempo, difendendo di fatto il regime nord-coreano dalle minacce statunitensi d’intervento militare per eliminare la sfida nucleare. Per Pechino, infatti, la Corea del Nord è un indispensabile stato-cuscinetto che finora ha impedito un contatto diretto con le forze americane presenti al Sud. Dunque, non può permettersi di lasciar cadere il regime di Kim (o, comunque, qualunque altro assicuri l’indipendenza del Paese), pena ritrovarsi una Corea riunificata, quasi certamente filo-americana e dotata del notevole know-how nucleare militare del Nord unito a quello civile, avanzatissimo, detenuto dal Sud. Nascerebbe un piccolo colosso strategico regionale, dalle grandi potenzialità (secondo uno studio di Goldman Sachs del 2009, una Corea unificata nel 2040 sarebbe la quarta o quinta potenza economica mondiale, con un Pil superiore a 6mila miliardi di dollari), ma inviso a quasi tutti i suoi vicini.

La riprova di quanto sia grande l’interesse di fondo cinese per la Corea del Nord si ebbe nel dicembre 1950, quando la poderosa controffensiva delle forze dell’Onu, partita dalla sacca di meridionale di Pusan, in cui erano state chiuse in appena un bimestre, risalì in brevissimo tempo tutta la penisola raggiungendo le rive del fiume Yalu, che segna il confine tra i due Paesi. Mao Zedong rischiò un pericoloso allargamento del conflitto inviando sul fronte i già ricordati 800mila uomini, di cui ben 150 mila (addirittura 400mila secondo fonti Usa) perirono per ripristinare la situazione di partenza al 38° parallelo, salvando nei fatti il regime nord-coreano aggressore. Ecco dunque qual è il primo Paese interessato a mantenere l’attuale status quo, per quanto precario si sia rivelato in questi decenni.

Un altro Paese ostile alla riunificazione si trova poco più a Sud: è il Giappone. Potenza occupante della Corea per 40 anni (1905-1945), il Sol Levante ha lasciato dietro di sé un ricordo imperituro di atrocità e di sfruttamento economico durissimo, tanto che la Corea del Sud - per quanto oggi formalmente alleata del Giappone nell’ambito della rete di alleanze regionali creata dagli Usa - vede nel vicino arcipelago un rivale politico, ma soprattutto un Paese che non ha mai accettato di fare ammenda degli orrori commessi durante l’invasione. Con Tokyo, inoltre, è anche aperto un delicato contenzioso territoriale per il controllo del minuscolo arcipelago delle Dokdo, circa 90 scogli posti nel Mar del Giappone, quasi tutti disabitati, ma le cui acque sono ricche di pesce e (forse) d’idrocarburi. Tokyo, dunque, ha tutto l’interesse che la penisola non si riunifichi, per non veder aumentare la potenza di un Paese tendenzialmente ostile, benché una Corea unita, in prospettiva, potrebbe costituire un alleato prezioso in funzione anti-cinese. Occorre poi considerare anche gli interessi degli Stati Uniti. Paladini della difesa del Sud (le perdite americane nella guerra degli anni 50 ammontarono a 58mila uomini, lo stesso numero della successiva guerra in Vietnam), essi vi mantengono stazionati 28.500 soldati e alcune centinaia tra carri armati e aerei militari: in caso di riunificazione, quasi certamente essi dovrebbero andarsene. L’amministrazione Trump, poi, vede la Corea del Sud più come un rivale economico-commerciale che come un partner, tanto da aver denunciato i trattati bilaterali di scambio vigenti perché svantaggiosi per la propria bilancia commerciale. Ovviamente un Paese unito all’inizio sarebbe molto probabilmente indebolito dai costi della riunificazione, ma in prospettiva è destinato a diventare un concorrente economico ancor più temibile per la stessa America (come ipotizza Goldman Sachs) e tentato da una linea “neutralista” verso la Cina, pur restando nei fatti anti-nipponico. Probabilmente solo la Russia potrebbe desiderare una Corea unita che sia, in un prossimo futuro, un antemurale di Tokyo e domani, forse, anche di Pechino.

Altre esperienze di riunificazione nazionale

Proviamo ora a valutare le altre recenti esperienze di riunificazione nazionale per comprendere l’eventuale fattibilità, oltre che politica, materiale (con i relativi costi) di quella coreana. La prima in ordine temporale, quella del Vietnam, non è però probante, essendosi trattato della conquista militare del Sud da parte del Nord e riguardando quindi un’incorporazione violenta. Neppure la seconda - lo Yemen, che si riunificò nel 1990 dopo decennali lacerazioni e lunghe guerre civili - appare significativa, poiché ha riguardato un processo teleguidato dall’esterno (Arabia Saudita ed Egitto, con il benevolo disinteresse occidentale). I risultati di questa unione possono infatti definirsi fallimentari, alla luce del permanente sottosviluppo e di mai sopiti contrasti religiosi e tribali che hanno portato, nel gennaio 2015, alla ripresa di un’accanita guerra civile e al durissimo intervento di un corpo di spedizione arabo, forte di circa 150mila soldati, guidato dall’Arabia Saudita.

Resta un ultimo caso - questo sostanzialmente riuscito, malgrado alcune residue difficoltà socio-economiche - che può costituire un esempio virtuoso per la Corea: la riunificazione della Germania.

Immagine: La riunificazione tedesca e coreana a confronto

riunificazione
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Fonte: Geopoliticalfutures.com


Anche qui, però, occorre aver ben chiari alcuni limiti del processo. In primo luogo, il 3 ottobre 1990, data della nascita ufficiale di una sola Germania, avvenne un’incorporazione (e non una fusione tra parti con uguali diritti) della ex repubblica democratica (Est) nella Germania federale (Ovest). Ciò fu possibile grazie a una singolare, favorevolissima serie di circostanze politiche: da un lato l’implosione politica del regime comunista, ormai largamente inviso alla grande maggioranza i della popolazione tedesco-orientale; dall’altro la debolezza dell’Unione Sovietica, che sarebbe infatti implosa, a sua volta, l’anno seguente; a ciò va aggiunto l’impegno solenne, preso dall’allora Cancelliere tedesco federale Helmut Kohl nei confronti dell’Europa e del mondo, di rinunciare a ogni sogno di revanscismo, inserendo la Germania unita per processo di unificazione in atto nell’Unione europea, che rese l’operazione accettabile (pur tra molti residui timori) al resto del continente e alla Russia stessa.

Va comunque riconosciuto che, a causa delle notevoli differenze di sviluppo socio-economico tra le due parti (da due a tre volte maggiore quello occidentale), il costo è risultato elevatissimo: secondo calcoli della Freie Universität di Berlino, circa 1.500 miliardi di euro, una somma allora superiore al debito statale tedesco. Altre stime indicano il valore di 1.200 miliardi di euro dell’epoca, pari a 1.700 ai valori odierni. A tali somme occorre aggiungere circa 10/15 miliardi di euro l’anno che da allora vengono trasferiti ai territori dell'ex-Germania Est per la "ricostruzione". Tuttavia questi costi sono stati contenuti grazie anche ai forti aiuti provenienti dall’Unione europea, stimabili in alcune centinaia di miliardi di euro.

 

Principali differenze tra Nord-Corea a Sud Corea per: demografia, infrastrutture e ambiente

differenze corea
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Fonte: Economist.com

 

Principali differenze tra Nord-Corea a Sud Corea per: ricchezza, economia e esercito

differenze corea esercito
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Fonte: Economist.com

 

Per i cittadini sud-coreani - il cui reddito è, secondo varie stime, tra 12 e 40 volte superiori a quello dei “fratelli” del Nord - la prospettiva di costi enormi, anche superiori a quelli sostenuti in Germania (benché ancora difficilmente stimabili con ragionevole approssimazione) appare quindi, comprensibilmente, poco popolare. Infatti l’unificazione trova ancora consenso tra gli ultra-sessantenni che, per esperienza personale o per vissuto familiare, sentono ancora vivo il trauma della guerra e della conseguente divisione di un popolo da millenni abituato a considerarsi indivisibile. La maggioranza dei giovani inferiori a trent’anni, invece, prova ormai una certa indifferenza verso il problema (nel 2010 solo il 49% di essi era favorevole alla riunificazione) ed è restia a ipotizzare sacrifici monetari per favorire l‘unità. Secondo una ricerca condotta dalla Seoul National University e citata dal quotidiano britannico The Guardian, l’unificazione nel 1992 era ritenuta necessaria dal 92% dei sud-coreani, ma solo più dal 64% nel 2007.

Inoltre, per Seul la conditio sine qua non affinché il processo si avvii è che esso preveda l’estensione al Nord del proprio sistema politico-sociale ed economico, cosa che il regime di Pyongyang rifiuterà senz’altro, minando alla base le ragioni intrinseche della sua esistenza. Se la riunificazione in senso politico appare oggi come un miraggio cui forse non credono né Kim né Moon, potrebbe invece risultare possibile una convergenza d’interessi verso forme di cooperazione economico-commerciale che riducano quanto meno le differenze più acute tra le parti.

Quale sarà l’impatto monetario di un’ipotetica riunificazione?

Pur potendo contare su aiuti internazionali cospicui (e Fondo Monetario e Banca Mondiale sono pronti a fare la loro parte), la Corea del Sud dovrà pur sempre accollarsi quasi tutto lo sforzo, sborsando cifre colossali. Le stime vanno dai 500 miliardi di dollari indicati nel 2014 da Shin Je-Yoon, presidente della Financial Services Commission di Seul, con l’obiettivo di elevare il Pil procapite del Nord da 1.250 a 10mila dollari nell’arco di un ventennio, fino a un massimo di 3mila miliardi previsti da Leonid Petrov, un esperto di problemi coreani dell’Australian National University, e da uno studio del 2005 della Rand Corporation, con un valore intermedio di circa 1.500/2.000 miliardi stimato da vari ricercatori, tra cui la società londinese SLJ di asset management, che ha rilasciato la sua valutazione nei giorni scorsi. Quando sarà raggiunto l’obiettivo iniziale dei 10mila dollari procapite di reddito assicurato ai nord-coreani, il Pil procapite al Sud nel frattempo sarà però galoppato a sua volta in avanti, riproducendo di fatto il paradosso di Achille e la tartaruga ideato 25 secoli fa dal filosofo greco Zenone: secondo stime del colosso finanziario americano Citigroup riportate dal Korea Times, il più autorevole quotidiano in lingua inglese del Paese, nel 2040 il reddito individuale al Sud, senza i costi dell’unificazione, supererà gli 86mila dollari. Ma se anche questi fossero sostenuti, non sarà comunque inferiore a 60mila dollari, mantenendo un divario molto elevato con i “fratelli” del Nord.

A titolo di mero paragone, occorre comunque valutare il costo di un’eventuale opzione bellica: sia Leonid Petrov, sia il periodico americano The National Interest stimano i danni materiali di un nuovo conflitto coreano, sulla falsariga di quello scoppiato nel 1950, in non meno di 3mila miliardi di dollari, il valore massimo comunemente indicato per la riunificazione. Da cui ne consegue la ovvia constatazione che unificare il Paese non costerebbe comunque di più che spianarlo nuovamente con una guerra. E senza i prevedibili costi umani, che sarebbero certamente ancor più spaventosi dei precedenti già menzionati: ciò rende quindi appetibile a prescindere l’unificazione economica della penisola.

Che riunire la Corea possa essere anche un’opportunità, oltre che un rischio, sembrano crederlo molti ambienti economico-industriali del Sud. Il perché è facile da comprendere: il Nord è dotato di una manodopera con buoni livelli d’istruzione e con retribuzioni quasi ridicole se paragonate a quelle del Sud. Se poi “scoppia la pace”, andrebbe drasticamente ridotto l’esercito, forte di un milione di effettivi, liberando ulteriore forza-lavoro per la ricostruzione del Paese. Inoltre Pyongyang vanta ricchezze minerarie insospettate ma enormi: ferro, oro, magnesio, zinco, rame, molibdeno, grafite e altri 200 diversi minerali, tra cui le sempre più cruciali “terre rare”, indispensabili soprattutto nell’elettronica avanzata. Il loro valore complessivo stimato lascia senza fiato: tra 6mila miliardi di dollari, secondo il quotidiano web “Quartz”, fino a 10mila miliardi per il settimanale The Economist. Per il Sud, le condizioni di enorme arretratezza del Nord costituirebbero quindi un eccezionale occasione di business: strade, aeroporti, porti, industrie, reti elettriche e telefoniche sarebbero da rimodernare o costruire ex novo.

Va tuttavia considerato che sull’unificazione non circola soltanto ottimismo. Lee Eung-jun, noto scrittore sud-coreano, un paio di anni fa ha provato a immaginare il Paese cinque anni dopo un’ipotetica riunificazione nel romanzo “Vita privata di una nazione”. Il quadro che ne esce è terribile: corruzione diffusa in ogni strato sociale, Seul - che agli occhi dei nordcoreani rappresenta una mitica isola di abbondanza, pace e libertà - preda di migrazioni di massa, baraccopoli e centri di smistamento di capitale umano nelle periferie, con il centro che pullula di gigantesche mense per i poveri rifugiati. Se fosse una visione profetica, la Corea preferirebbe restare divisa ancora a lungo.