L’America ha detto no alla “dinastia Cinton” e si è imbarcata sull’ottovolante di Donald Trump, vincitore contro ogni previsione, che ha instaurato un reale predominio repubblicano a Washington dalle conseguenze imprevedibili.
Lo “hidden vote”, ossia il voto nascosto, ha portato Trump alla Casa Bianca coronando la ribellione politica dell’America rurale, dei bianchi privi dei titoli di studio richiesti dalla nuova economia, e della classe media traumatizzata della globalizzazione. È una rivolta che finirà per sconquassare entrambi i partiti perché la sconfitta di Hillary spalanca un periodo di feroci recriminazioni nel campo democratico ed al tempo stesso impone al partito repubblicano di ricucire la frattura che si è prodotta tra la sua leadership elitaria e il vecchio elettorato conservatore. Donald Trump è lo “outsider” che ha battuto la “insider”, quella Hillary Clinton che aveva dalla sua parte i poteri forti di Wall Street ed una macchina elettorale potente ma insensibile alle istanze di quelli che la stessa Clinton ebbe a definire, con un’espressione quanto mai disgraziata, “deplorable” ossia miserevoli. Hillary ha pagato caro i discorsi a Wall Street, altamente remunerati ma tali da scatenare i fulmini del suo avversario nelle primarie, quel Bernie Sanders che si è ostinato a dipingere Hillary come un candidato vassallo dell’uno per cento, quella fetta della popolazione che ha visto la sua ricchezza moltiplicarsi, e delle banche, che il governo federale ha salvato con elargizioni finanziarie mentre tantissimi Americani perdevano le loro case colpite dalle impietose “foreclosures”.
Non vi è dubbio alcuno che si è trattato di una rivolta contro lo establishment, la globalizzazione e la de-industrializzazione dell’America. Queste cose le aveva dette Bernie ed oggi i suoi giovani paladini invadono i social media con messaggi a base di “I told you so” (ve lo avevamo detto). Bernie Sanders era uscito, poco prima della convenzione democratica, con un messaggio corrosivo: “Hillary Clinton è un candidato imperfetto che non può battere Trump”. Con la pesante sconfitta di Hillary, Bernie Sanders e la “pasonaria” della sinistra democratica, Elizabeth Warren, sono uniti nella sfida alla élite democratica che aveva in Hillary lo strumento per conservare il potere attraverso lo statu quo. C’era comunque un altro problema, che un partito raramente riesce a detenere la Casa Bianca per tre mandati consecutivi. Anche la storia dunque ha giocato un ruolo nella sconfitta di Hillary. Ed ancora, nello scorcio conclusivo della campagna presidenziale il Presidente Obama contava su un quoziente di approvazione del 51 per cento, troppo basso per assicurare la successione di un candidato del suo partito. Le lingue maligne ora dicono che come già nel caso di Brexit, quando Obama andò a Londra per sostenere inutilmente il primo ministro Cameron, il presidente abbia portato “sfiga”.
Per contro, Donald Trump ha saputo vendersi come “Agent for Change”, il protagonista del cambio che tanti Americani invocavano. In particolare, Trump è riuscito a convincere l’America povera che il commercio internazionale era una jattura e che troppi Paesi vivevano alle spalle dell’America, da quelli europei che non pagano abbastanza per la loro difesa alla Cina accusata di manipolare la propria moneta. La controversia sugli accordi commerciali negoziati con Europa ed Asia sotto un manto di segretezza era chiaramente destinata ad esplodere nella dialettica elettorale. Messa alle corde da Sanders, Hillary Clinton aveva smesso di tessere elogi per i patti commerciali ed aveva tergiversato. Ma era già troppo tardi per disinnescare la mina vagante.
Alla resa dei conti, la chiave del successo di Donald Trump è che ad onta dell’opposizione e delle critiche dei maggiorenti repubblicani – da un ex presidente al leader della Camera e un folto gruppo di parlamentari – gli elettori repubblicani hanno dimostrato il loro appoggio, e di fatto la loro lealtà, verso il candidato presidenziale del loro partito. Le accuse di “assalti sessuali” ed altre intemperanze ed offese, sociali e anche razziali, del Donald non hanno scalfito quella lealtà. E dire che sembrava che questa consultazione presidenziale dovesse essere decisa dalle accuse e denunce legate alle personalità dei candidati anziché dalle loro idee e proposte su temi politici a vasto respiro come la sicurezza nazionale, l’immigrazione e la salute pubblica.
Un altro fattore che va attentamente valutato in una dinamica elettorale fortemente influenzata dai contributi finanziari è che Donald Trump è stato percepito dal suo elettorato come un uomo che non poteva essere “comprato”, in parte perché ricco ma anche perché scarsamente favorito dai grandi finanziatori elettorali. Altrettanto interessante è la constatazione che la presenza di una donna nella corsa elettorale non è stata un fattore determinante come molti pensavano. Il margine di superiorità del voto femminile è stato anch’esso inferiore alle aspettative. Hillary Clinton non è andata oltre il 51 per cento delle donne con titoli di studio superiori, contro il 45 per cento di Trump.
La sorpresa maggiore di questa tornata elettorale è comunque che il vincitore non ha mai avuto un margine di vantaggio nei sondaggi demoscopici. La consultazione del 2016 rappresenta, senza mezzi termini, il più grosso “upset” ossia capovolgimento nella storia americana. Un’ondata colossale di elettori ha punito gli esperti dei sondaggi elettorali. Si è scoperto infatti che contrariamente a quel che sostenevano i tecnici, la grande massa di elettori – all’incirca il 73 per cento - aveva deciso per chi votare tre mesi fa, ancor prima che esplodessero gli scandali, dagli “assalti sessuali” imputati a Trump alle macchinazioni attorno agli e.mail di Hillary Clinton. È evidente insomma che gli elettori avevano deciso di mantenere il segreto sulle loro scelte, con il malevolo intento forse di dare una lezione ai demoscopi. È nato così lo “hidden vote” che ha deciso il risultato elettorale.
Per fortuna dell’America, non dovrebbe emergere una crisi di legittimità a Washington. Molto dipende da quanto sarà spedita l’opera di Donald Trump nel mettere in moto un processo di rinnovamento politico ed economico. Di certo, Trump non potrà contare su una “luna di miele”, all’indomani di una campagna elettorale condotta da entrambi i candidati all’insegna di accuse ed invettive. Pesa su Trump l’obbligo di far qualcosa, e presto, per quel 63 per cento animato da angst , un misto di ansietà e rabbia, per il fatto che l’economia è stata ingiusta nei confronti della classe media. C’è anche da attendersi che la sfida lanciata da Sanders e abbracciata dai Millennials contro la supremazia del potere corporativo non mancherà di intensificarsi.
Il discorso ovviamente è ben più vasto e di ordine globale quando si considera che si sono fortemente indebolite quelle istituzioni che un tempo fornivano un contrappeso alla supremazia dei poteri forti. Il pericolo avvertito oggi da molti è che il populismo di destra acquisterà maggior vigore e sofisticazione, in linea con una simile preoccupante evoluzione in Europa. Quanto meno negli Stati Uniti è apparente che la legittima angst della underclass bianca si è opposta con decisione a quello stato di fatto che Alexis de Tocqueville definiva “despotismo democratico”. Resta da vedere se Donald Trump – un magnate immobiliario – riuscirà a trasformarsi in un “executive in charge”, un agente del cambio che riduca le iniquità che affliggono una gran parte degli Americani.
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