I BRICS sono il futuro? Oppure il loro momento di gloria è stato tanto fugace da appartenere già al passato?

I cosiddetti BRICS (in origine quattro, Brasile, Russia, India e Cina, ai quali nel 2010 si è aggiunto il Sudafrica, uno junior partner dal peso politico-economico ancora piuttosto limitato rispetto ai fondatori) costituiscono un gruppo di Paesi emergenti la cui associazione è nata in modo abbastanza casuale: l’ideatore del “marchio” è stato infatti Jim O’Neill, economista della banca d’affari Goldman Sachs, il quale, in uno studio pubblicato nel 2001, sostenne che le economie dei quattro “fondatori” (le cui iniziali formano l’acronimo BRIC, in inglese “mattone”) erano destinate a crescere in modo irresistibile, tanto che a metà secolo il loro Pil avrebbe raggiunto un livello analogo a quello dei sei Paesi allora più sviluppati (Stati Uniti, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia). Mentre in quell’anno la loro ricchezza prodotta si fermava ad appena il 17% di quella del G-6.

«I Bric sono una metafora dell’emergere di una nuova geografia economica - sosteneva all’avvio della loro avventura Andrea Goldstein, senior economist dell’Ocse - La loro caratteristica comune più rilevante è quella di essere grandi Paesi: occupano il 26% della superficie terrestre, su cui vive il 42% della popolazione mondiale». La grande forza dei BRICS proviene infatti dalla loro massa geo-demografica: in un’economia di mercato, la popolazione di questi Paesi costituisce la principale componente della loro domanda. Ed è proprio facendo leva sull’aumento della domanda interna - benché, all’orizzonte del 2050, la loro quota sul totale della popolazione mondiale sia destinata a scendere al 36%, a causa del calo demografico che subiranno soprattutto Cina e Russia - che essi alimenteranno la propria crescita. Ciò dovrebbe condurli a essere i Paesi economicamente più importanti del pianeta, soppiantando l’attuale G-7 come peso decisionale mondiale.

Tale previsione, a quell’epoca in apparenza temeraria, sembra essere tuttora valida, alla luce dei tassi di sviluppo realizzati in questi 15 anni. Dal Duemila, infatti, il Pil pro-capite di Brasile, Russia, India e Cina, a parità di potere d'acquisto, è cresciuto del 99%, rispetto al 35% dei maggiori Paesi industrializzati. L’ipotesi di O’Neill, tuttavia, al momento della sua formulazione, non poteva tener conto della prolungata crisi economico-finanziaria internazionale, sopraggiunta a partire dal 2008.

La crisi sta infatti colpendo a fondo tanto la Russia, legata soprattutto all’esportazione di materie prime minerarie ed energetiche (circa il 75% del valore totale dell’export), quanto il Brasile e il Sudafrica, in preda a profonde crisi politico-istituzionali interne (con la destituzione a fine agosto del presidente brasiliano Dilma Rousseff e la dura campagna di accuse di corruzione che sta montando nel Paese contro il collega sudafricano Jacob Zuma), che si riflettono inevitabilmente sull’andamento economico, generando un clima di sfiducia. Gli investimenti diretti, termometro molto significativo delle attese estere, sono diminuiti lo scorso anno dell’11,5% in Brasile e crollati addirittura del 75% in Sudafrica. Ma la crisi si fa sentire anche in Cina, la cui crescita, pur ancora cospicua rispetto agli standard occidentali, sta planando verso livelli più “normali” a causa del forte rallentamento della domanda dei Paesi industrializzati. Solo l’India sembra andare controcorrente, guadagnando peso non solo tra i BRICS, ma anche rispetto alle economie più sviluppate, il cui contributo al Pil mondiale nel 2014 ha superato quello dei paesi emergenti (cfr. Grafici).

 

migliavacca1 nov16
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Tanto è bastato perché, soprattutto in Occidente, si cominciasse a ipotizzare che le ambizioni di creare un nuovo modello politico-economico, coltivate per alcuni anni dai BRICS anche con evidenti finalità politiche, fossero ormai destinate a fallire. Un modello che sarebbe stato alternativo rispetto a quello ancora oggi dominante, edificato dai vincitori della Seconda guerra mondiale con gli accordi di Bretton Woods.

Il momento della formalizzazione del gruppo, nel 2009, con riunioni periodiche dei membri, pareva infatti favorevole per affrontare le principali sfide economiche globali: dalla lotta alla povertà allo sviluppo infrastrutturale, fino alla necessità di concedere credito ai Paesi meno sviluppati con maggiore generosità di quanto fosse uso fare l’Occidente e senza le sue numerose restrizioni politiche. L’ambizione dichiarata era di spostare il baricentro del mondo, ridisegnando gli equilibri globali proprio a partire da quegli enti economico-finanziari internazionali (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale per il commercio) che, percepiti come espressione degli interessi dell’Occidente, da quest’ultimo governati da sempre e messi nell’impossibilità di realizzare qualsiasi modifica dei sistemi di governance e delle filosofie d’intervento. Esemplare, a questo riguardo, la mancata riforma interna al Fondo monetario internazionale e il rifiuto dei paesi più sviluppati di attuare una redistribuzione più equa delle quote di voto di Usa ed Europa a favore dei Paesi in via di sviluppo (Pvs), la cui proposta rimase bloccata al Congresso americano dal 2010 al 2015.

Il progetto dei BRICS si è quindi rivolto alla creazione di organismi alternativi, più vicini ai bisogni dei Paesi in via di sviluppo, facendo affidamento sugli enormi surplus delle proprie bilance dei pagamenti e sui livelli di debito pubblico assai più bassi di quelli dei Paesi industrializzati, che consentivano di mobilitare ingenti risorse finanziarie per il sostegno di Paesi terzi. Da qui la scelta di creare la Nuova Banca di Sviluppo - vero contraltare della Banca Mondiale - la cui istituzione è stata decisa al sesto summit dei BRICS tenutosi a Fortaleza (Brasile) nel 2014 con l’obiettivo, come afferma il sito istituzionale internet della banca stessa, di consentire ai Pvs di «soddisfare la loro ambizione di reggersi sui propri piedi». Essa è dotata di un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari e conta su un fondo strategico di capitali di riserva, denominato Accordo sui Fondi di Riserva (Contingent Reserve Arrangement), con un potenziale di 100 miliardi di dollari per far fronte a eventuali crisi valutarie e alle pressioni a breve termine sulla liquidità. La Cina vi contribuirà con 41 miliardi, Brasile, India e Russia con 18 miliardi a testa e il Sudafrica con 5 miliardi. Ma le prospettive di un rapido successo di questa fonte alternativa di credito sembrano piuttosto ridotte, se è vero che la Banca ha finora elargito prestiti per appena 811 milioni di dollari (a titolo di raffronto, nel solo 2015 la Banca Mondiale ha concesso finanziamenti per 11.569 milioni) e dichiarava, nelle scorse settimane, di prevedere erogazioni per 10 miliardi nel prossimo quinquennio.

A che punto sono dunque giunti i BRICS, dopo il generale disinteresse internazionale che ha accolto il loro ultimo vertice tenutosi a Goa a metà dell’ottobre scorso? Le differenze che li dividono appaiono molte. Forse più di ciò che li accomuna.

Intanto, sul piano geo-politico, non si tratta affatto di un gruppo equilibrato: Russia e Cina vantano un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il relativo diritto di veto; l’India, malgrado la sua crescente capacità strategica globale, basata anche su un ragguardevole arsenale atomico e missilistico, vi ambisce ma, in mancanza di una riforma globale dell’Onu - da molti auspicata ma di fattibilità concreta quasi impossibile - ne resterà esclusa; Brasile e Sudafrica non vanno più in là di ambizioni di potenza regionale, per di più sfidati, in questo ruolo, rispettivamente da Argentina e Nigeria.

Neppure sul piano istituzionale i BRICS hanno molto in comune: due sono democrazie autoritarie (la Russia tiene elezioni regolari e ha un sistema pluripartitico, ma è retta da un’oligarchia soffocante e difficilmente modificabile e penetrabile da eventuali oppositori; la Cina ha un sistema rigidamente monopartitico e di fatto esclude da una reale rappresentanza socio-politica quasi tutta la popolazione). Le altre tre sono democrazie formali, ma a forte impronta personalistica e afflitte da una corruzione dilagante (elemento, quest’ultimo, peraltro comune anche a Russia e Cina). Inoltre i livelli di sviluppo socio-economico appaiono assai differenti tra loro, con squilibri interni molto elevati e in fase di ampliamento, cosa che potrebbe innescare pericolose tensioni politiche.

Dal punto di vista economico, i BRICS non solo presentano diverse prospettive di crescita - al 2020 il tasso di crescita del GDP della Cina potrebbe essere di quasi cinque volte superiore a quello dell’India e di nove/dieci volte superiore a quello di Brasile e Russia - ma divergono anche in altri indicatori strategici, come il rapporto surplus/deficit, l’indice dei prezzi al consumo, i rendimenti dei titoli di stato e i tassi di interesse reali dei titoli di stato (cfr. Tabella).

migliavacca2 nov 16
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Fonte: Business Line; September 29, 2015

È probabile che, nati per caso da una comune ambizione di sviluppo accelerato, i BRICS continuino a esistere con una vocazione soprattutto anti-occidentale, compattati di fatto dalla volontà di affrancarsi da enti e prassi gestionali da cui sono stati finora tenuti ai margini. Ma è altresì probabile che, appena ottenuta la sospirata “visibilità” politica e istituzionale, esplodano le contraddizioni interne che ne minano le prospettive di azione comune. Russia e Cina formano un’alleanza consolidata dalla miopia statunitense, che ha finora cercato di confinare allo status di potenza regionale la prima e che punta a isolare con un “cordone sanitario” le velleità d’influenza globale della seconda. Ma entrambe hanno tutto per tornare presto a dividersi e a competere. L’India resta un alleato tattico della Russia ma sarà soprattutto, ancora a lungo, un nemico storico della Cina, pronta a stringere legami sempre più solidi, economici e strategici, con gli Stati Uniti per contrastarla, minando a fondo le attuali scelte anti-americane e anti-occidentali di Mosca e Pechino. Brasile e Sudafrica, partner minori dei BRICS con saldi legami con l’Occidente, difficilmente seguiranno politiche analoghe. Tutti, poi, potrebbero finire per competere tra loro nella conquista di mercati terzi. L’Africa è la grande preda già ora contesa: al dilagare degli investimenti e dei flussi commerciali cinesi, fa da contraltare l’attenzione crescente dell’India e – per ora almeno limitatamente alle ex colonie portoghesi, Angola e Mozambico su tutte, con cui ha in comune la lingua – del Brasile.

Come prevedeva già nel 2012 il mensile di geo-politica Limes «La partita per l’influenza geopolitica nel mondo è sempre aperta. I BRICS devono decidere se c’è spazio per il gioco di squadra o la considerano uno sport esclusivamente individuale». Quattro anni di convulse vicende internazionali sembrano farci decisamente propendere per la seconda ipotesi.