1. Proviamo a spostare per un attimo le lancette dell’orologio all’indietro. Secondo i sondaggi, il 15 settembre 2008 il repubblicano John McCain era virtualmente il futuro Presidente degli Stati Uniti, con due punti e mezzo di distacco dal contendente, il senatore dell’Illinois Barack Obama.
A fine agosto 1980, Jimmy Carter annotava nel suo diario privato: “i sondaggi danno corpo alle nostre migliori aspettative” (“our fondest expectations were realized in the polls”). Gli istituti demoscopici gli restituivano l’immagine di una incoraggiante parità, anzi, di una lieve prevalenza sull’avversario. Il vento dei sondaggi soffiava, ma nessuno sapeva che si era a soli due mesi dall’elezione che avrebbe mandato alla Casa Bianca Ronald Reagan, con oltre otto milioni di voti e nove punti percentuali di distacco sull’avversario. Meno di due mesi separano gli Stati Uniti dal verdetto elettorale. Sono dati che conviene tenere presenti oggi, quando gli istituti di sondaggi tendono a registrare una netta avanzata di Obama al traino della convention di Charlotte. 50 a 44 su Romney, secondo l’ultimo Gallup; 48 a 45, secondo la media elaborata da Real Clear Politics.
Se la storia insegna qualcosa, gli ultimi due mesi sono mesi decisivi nella gran parte delle sfide presidenziali e tutto può ancora cambiare.
2. Come già notava Alexis de Tocqueville, le energie vitali di una democrazia liberale raggiungono il parossismo man mano che ci si avvicina al voto. “Il desiderio della rielezione domina i pensieri del presidente (...), i suoi più piccoli atti sono subordinati a questo oggetto.” Secondo de Tocqueville, i legislatori americani “introducendo il principio della rielezione, hanno in parte distrutta la loro opera; hanno accordato al presidente un grande potere, ma gli hanno tolto la volontà di farne uso”. Ogni azione infatti scontenta qualcuno, soprattutto fra la base elettorale del partito che ha espresso il presidente.
È a questa base che Obama ha rivolto i suoi ultimi discorsi, la middle class che fa da bacino elettorale privilegiato per la sua difficile, combattuta rielezione.
3. Alla campagna democratica giunge in questi giorni il conforto della notizia che, ad agosto, per la prima volta i finanziamenti per Obama hanno sopravanzato quelli della possente macchina da guerra di Romney: 117 milioni di dollari a 114 (“don’t let it be the last time”, ha raccomandato Obama ai sostenitori, “fate che non sia l’ultima volta che accade”).
Il “Forward” di Obama viene lanciato così nel momento più critico e tumultuoso della sorte politica del presidente, ma, come si diceva all’inizio, i dati emessi dagli istituti demoscopici sono allo stato attuale poco più di quelle previsioni del tempo che dicono: “si prevede che l’inverno 2012 sarà sensibilmente più freddo dell’estate”. In poche parole, non ci dicono nulla di certo.
McCain, in particolare, cominciò proprio a metà settembre di quattro anni fa quella progressiva, rovinosa caduta nelle intenzioni di voto che lo portò, dopo neanche due mesi, alla sconfitta elettorale. La crisi finanziaria si fece sentire in modo acuto e i repubblicani vennero definitivamente identificati come il problema e non la soluzione. Stessa cosa per Carter, ostaggio della nuova teocrazia iraniana, incapace in quei due mesi di infondere la fiducia necessaria a un paese prostrato. E ancora: nel 2000, sempre a metà settembre, Al Gore veniva accreditato di un decisivo margine di 48 a 40 su George W. Bush. Sappiamo come è finita, al filo di lana in Florida.
4. In un’epoca in cui molto spesso la scienza si accompagna alla superstizione, agli istituti demoscopici vengono attribuite facoltà divinatorie talvolta un tantino esagerate.
Il modo “moderno” di fare polling negli Stati Uniti nasce a metà degli anni Trenta, e non è un caso. Siamo nel cuore della presidenza più iconica e ingombrante del Novecento, quella di Franklin Delano Roosevelt, che sceglie i riflettori e l’accentramento e si presta dunque a una particolare, accurata osservazione. Ma soprattutto siamo definitivamente nella modernità: prima di allora i sondaggi si facevano come li faceva il Literary Digest, cioè spedendo lettere un po’ a casaccio, a gruppi non selezionati di elettori, pescandoli ovviamente nel milieu della rivista, colto e benestante. È nell’America operaia di Roosevelt che le scienze sociologiche affinano i propri strumenti, per disegnare campioni attendibili, che prendano in considerazione tutte le fasce sociali, tutte le classi.
Il sondaggio vuole rendere prevedibile ciò che non è prevedibile e questo per lenire il senso di incertezza che pervade la nostra epoca instabile. Nasce nell’America che sentiva prioritaria la necessità di fare ordine, di organizzare e controllare le cose in anticipo per prevenire nuove crisi, nuovi crolli, nuovi attacchi di panico. La “scienza esatta” delle indagini di opinione diventava un oggetto indispensabile, parte stessa del panorama consueto della campagna elettorale.
Con tutte le precauzioni e i doverosi scetticismi del caso, converrà stare a vedere come questo panorama, in così tumultuoso movimento, cambierà nelle prossime, decisive settimane, anche attraverso i pur fallaci sondaggi elettorali, per restituirci un’immagine sempre più definita e fedele del prossimo presidente degli Stati Uniti d’America.
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