Delle elezioni americane si è già detto tutto e il contrario di tutto. A noi preme sottolineare due cose in apparente contraddizione tra loro. La vittoria di Obama è la vittoria di un presidente dimezzato (§1). Con l’elettorato diviso a metà e la camera bassa in mano ai repubblicani, il presidente democratico avrà vita dura: Obama non ha un forte mandato elettorale e per governare dovrà di continuo mediare in modo da non essere ostracizzato dai repubblicani. Allo stesso tempo però, la vittoria di Obama segnala l’emergere di una nuova coalizione elettorale che non potrà se non crescere nei prossimi anni (§2).
Obama può quindi poco e molto allo stesso tempo. È il “nuovo che avanza”, ma è un nuovo che avanza a piccoli passi perché ancora parzialmente imbrigliato nelle maglie del passato. Tutto lascia comunque presupporre come queste maglie siano destinate ad allentarsi col tempo, tanto che la presidenza Obama potrebbe passare alla storia come un periodo di transizione posta tra due epoche distinte con poco o nulla in comune fra loro (§3).
1. Si può dire che la vittoria di Obama è una vittoria dimezzata perché dopo quattro anni di governo il presidente ha raccolto ancora grossomodo gli stessi voti con cui aveva vinto nel 2008 e questo malgrado riforme di sostanza come la riforma sanitaria o risultati tangibili come il salvataggio di una intera industria, quella dell’automobile. Hanno infatti votato per il presidente il 50.6% degli americani che si sono recati alle urne (il 57.5% del totale), contro un 47.9% andati al candidato repubblicano Mitt Romney. Ovvero ha votato per Obama un americano su quattro. Nel 2008 a votare per Obama fu il 52.9% dei votanti (più o meno la stessa percentuale di oggi), contro 45.7% di John McCain. Solo che quattro anni fa Obama era uno sconosciuto e il congresso era saldamente in mano democratica. Oggi che del candidato si sa tutto, il gradimento non avanza ma arretra, e questo in presenza di un gridlock, ossia di uno stallo, tra gli opposti schieramenti al congresso. Con questa vittoria Obama può solo cercare di mediare ogni sua azione politica in modo da non aggravare lo stallo, cosa non semplice visto che ormai, come in Europa, la campagna elettorale prosegue invece di fermarsi dopo l’esito elettorale. Invece di collaborare con il vincitore, i perdenti fanno di tutto per sabotarne il governo in modo da favorire le loro chances nel seguente ciclo elettorale. Ormai la cosa è talmente entrata nell’uso che nessuno si ricorda più di come non fosse questa la prassi solo pochi decenni fa. Se Reagan riuscì a portare avanti la sua ‘rivoluzione’ è perché governava con il consenso critico dei democratici, che si limitavano a fare da contrappeso all’azione di governo e non tiravano il freno a mano su tutto.
Un esempio concreto di quanto andiamo dicendo è il cosiddetto fiscal cliff, il “dirupo fiscale”, che potrebbe spalancarsi dinanzi all’economia statunitense a partire dal 31 gennaio di quest’anno. Se la presidenza e il congresso non raggiungono presto un accordo su come ridurre il deficit, quel giorno andranno in vigore una serie di norme budgettarie (tagli alla spesa e aumenti delle tasse) con potenziali effetti recessivi sul Pil stimati almeno al 3%. Ce la farà Obama a convincere i repubblicani a ridurre il budget senza che questi impongano pesanti modifiche alla riforma sanitaria varata dal Presidente tra mille difficoltà? Quali detrazioni e incentivi fiscali conservare ancora fra quelli varati da George W. Bush e finora prorogati? Non esistono agli atti risposte a queste domande che non implichino una volontà di compromesso condivisa fra le parti.
2. Se si può dunque dire che Obama è un presidente dimezzato, è altrettanto vero che la coalizione elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca è composto da segmenti demografici in netta espansione. In queste elezioni si è infatti manifestata una polarizzazione netta fra i votanti: con i “bianchi” da un lato a votare Romney e i “non-bianchi” dall’altro a votare Obama. Dei due campi solo quello delle minoranze non-bianche è in crescita demografica, tanto che in molte zone del paese (in California, ad esempio) i bianchi sono diventati una minoranza. Se i trend demografici continuano (e non vi è motivo perché non lo facciano), nel 2016, quando si tornerà al voto, in quasi tutto il paese i ‘bianchi’ saranno una minoranza fra le minoranze. Ad aggravare la situazione per i repubblicani è che perdono consenso anche fra le donne bianche. Il motivo della disaffezione femminile è un grosso campanello d’allarme per i repubblicani perché ciò che le respinge è ciò che un tempo teneva insieme la coalizione: i valori conservatori. Era infatti i “valori della famiglia” a tenere insieme la coalizione reaganiana fatta di big business, middle-class e conservatori sociali di stampo religioso. Oggi ciò che tiene insieme big business e conservatori sociali allontana la classe media, soprattutto nella sua parte femminile che si trova in imbarazzo di fronte alle posizioni prese dai conservatori su aborto e matrimonio omosessuale. Allo stesso tempo, elettori tendenzialmente conservatori come i Latinos (cattolici praticanti, paternalisti, tradizionalisti) non si fidano del big business e disdegnano i “valori morali” della middle class come pura ipocrisia.
Che una nuova coalizione si stia solidificando attorno ad un nuovo blocco sociale è testificato anche dal passaggio in California della Proposition 30, il referendum che chiedeva un aumento delle tasse statali in cambio di migliori servizi scolastici e universitari. La precedente coalizione maggioritaria, quella oggi perde con Mitt Romney, era nata proprio dalla vittoria in California della Proposition 13, che chiedeva una riduzione drastica delle tasse statali.
La coalizione di Obama comunque non è nuova, tutt’altro. Erano decenni, dagli anni settanta ad essere precisi, che la élite intellettuali, le professioni liberali, e le minoranze etniche, andavano convergendo su di una piattaforma di valori progressisti. Fu grazie alla possibilità di mandare un professore universitario di colore alla presidenza che la nuova compagine prese coscienza di sé nel 2008. Quest’anno la coalizione ha retto, anche se l’entusiasmo per Obama è scemato in molti settori, quali ad esempio quelli più di sinistra, o quelli filo-israeliani. Ma la prospettiva di eleggere almeno due justices alla Corte Costituzionale ha spinto molti di essi a votare per Obama anche in presenza di profonde critiche. O meglio, la paura che potesse essere un presidente conservatore a farlo li ha spinti a votare Obama.
3. Bloccato nell’agire pratico dal gridlockrepubblicano, ma sorretto da una coalizione in crescita, a Obama non resta che governare sotto scacco, ma piantando ovunque i semi di un futuro che non tarderà a venire. Il presidente potrà far ciò principalmente in due modi. Mediando l’azione di governo il più possibile, cercherà di coinvolgere gli avversari nella gestione del potere. Questo metterà i repubblicani dinnanzi alle proprie responsabilità, non concedendo loro di presentarsi nel 2016 con le mani pulite. Un’altra strategia sarà quella di creare discorso, ossia, di mettere sul tavolo temi e dibattiti che possano essere propizi all’emergere definitivo della nuova coalizione nel 2016. In questo campo Obama si è già dimostrato pienamente capace e perfettamente a suo agio. Mediocre duellante, il presidente è una forza della natura quando, dal podio, scandaglia estasiato le profondità del discorso pubblico americano.
Il discorso della vittoria è un esempio del migliore Obama. In esso Obama continua a fare quello che va facendo da tempo nei suoi discorsi: ridefinire il cosiddetto “eccezionalismo americano” attualizzandolo. L’America non è “eccezionale” perché non avendo sedimenti medioevali la sua storia corrisponde e si identifica con la modernità in quanto tale. Gli Stati Uniti fanno eccezione perché sono una nazione cosmopolita: al suo interno si riflette il mondo intero. In passato l’eccezionalismo americano era predicato in modo da parere propizio alla maggioranza bianca del paese, definendo l’America come sintesi delle diversità europee. Oggi che la maggioranza non ha più solo radici europee, l’eccezionalità consiste nella capacità del paese di accogliere e mescolare in un’unica nazione minoranze provenienti da tutte le parti del mondo. “Questo paese è il più ricco paese al mondo, ma non è per questo che siamo ricchi. Abbiamo l’esercito più potente della storia, ma non è questo che ci rende forti. Le nostre università, la nostra cultura, sono l’invidia del mondo intero, ma non è per questo che il mondo approda alle nostre coste. Ciò che rende l’America eccezionale sono i legami che tengono insieme il paese più vario del mondo. L’idea che il nostro destino è condiviso; che questa nazione funziona solo quando accettiamo gli obblighi che ci legano gli uni agli altri e alle generazioni future. La libertà per cui molti americani hanno combattuto, e per cui sono morti, impone diritti ma anche doveri. Fra cui spiccano l’amore, la carità, l’obbligo morale e il patriottismo. Questo è ciò che rende l’America grande.” (That’s what makes America great).
La forza degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo è l’indubbia capacità dimostrata nel saper adattare il nazionalismo americano alle esigenze di una società globalizzata. In un mondo dove gli stati entrano in crisi e dove il cozzare delle identità innesca conflitti a non finire, gli Stati Uniti hanno sviluppato un modello di riaggregazione transnazionale che non comporta la perdita dell’identità nazionale. Al momento, l’America futura che Obama incarna è ingabbiata nei legacci del passato che la coalizione conservatrice riesce ancora a mantenere saldi. Ma il futuro è aperto, e come non sperare con Obama che the best is yet to come, che il meglio deve ancora venire? Perché il futuro sia migliore del passato, però, occorrerà che presto i conservatori inizino a riconoscere qualcosa di sé negli altri, dando al nuovo che avanza l’opportunità di imporsi senza traumi. È forse questo il vero lavoro che si prospetta ora a Obama. Far capire alla coalizione avversaria che gli americani che lo hanno riconfermato alla Casa Bianca non sono meno americani di loro, anzi. Sono loro il futuro della nazione.
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