1. Durante il seminario internazionale Donne, economia e potere 2012 svoltosi a Firenze il 26 e 27 ottobre 2012, è stato accolto con un’ovazione da parte dei 250 partecipanti, fra cui molti uomini, l'annuncio dell'approvazione da parte del Consiglio dei ministri del regolamento attuativo della legge sulle quote rosa nei Cda delle controllate. Il regolamento, che ora ha pienezza attuativa, decreta l'obbligo per le società quotate e le controllate pubbliche di avere nei Cda un quinto di donne al primo rinnovo e poi un terzo al secondo, pena la decadenza del consiglio.
L’attuazione della legge porterebbe notevoli vantaggi all’Italia. Un recente studio della McKinsey, volto a mostrare l'effetto del management femminile sul Roe, ha stabilito che se l’Italia spendesse bene i quasi sette miliardi di euro che l’Unione europea assegna all’implementazione delle politiche di genere creerebbe fino a 2,5 milioni di posti di lavoro portandosi al livello di occupazione femminile nei paesi più avanzati. È questo infatti l’obiettivo che la Commissione Europea si è posta per il quinquennio 2010-2015 in fatto di pari opportunità. Se ciò accadesse, i consumi crescerebbero del 20 per cento. In questa direzione va anche il rapporto sull’imprenditoria femminile redatto da Unioncamere e dal Dipartimento per le pari opportunità nel 2011. Secondo tale rapporto, in Italia, le aziende con al loro vertice almeno un manager donna farebbero registrare fatturati mediamente superiori rispetto a quelli di un’azienda tutta al maschile. La centralità dell’introduzione delle donne ai vertici aziendali e, di conseguenza, l’implementazione di politiche di genere atte a favorire questo ingresso, non è questione tematizzata solo nel nostro Paese, ma emerge anche dallo studio inglese, Women On Boards, dove viene evidenziato come le aziende che hanno donne all’interno del top management registrino positivi impatti sulla propria performance.
2. Il mondo degli affari non è mai stato incline a favorire l’imprenditorialità femminile. Nel 1999 viene pubblicata una raccolta di saggi dal titolo Women in Business. Il titolo è evocativo perché è dovuto passare ben mezzo secolo prima che venisse pubblicato un volume corrispettivo al Men in Business di Miller, che trattava il medesimo tema declinato solo al maschile. Questo accadeva perché nell’Ottocento nessuna donna era in posizione di comando. La situazione, almeno negli Stati Uniti e in parte nel Regno Unito, inizia a cambiare nel Novecento, quando due guerre mondiali e la trasformazione degli apparati bellici nel secondo dopoguerra portano a maggiori opportunità per le donne in ogni settore, compreso quello imprenditoriale. Ciò non equivale a dire che in Europa non vi sia in sottotraccia una presenza imprenditoriale femminile. Ma per trovarla occorre usare sofisticati strumenti storiografici come quelli offerti dai gender studies applicati allo studio delle relazioni economiche. Non solo gli imprenditori, i lavoratori e i consumatori contribuiscono alla creazione di imprese, ma anche le loro mogli e le loro figlie. In presenza di barriere sociali e istituzionali (nell’istruzione, nelle prassi, nei codici), l’imprenditorialità femminile appare concentrata nel self-employment e nella piccola e piccolissima impresa, tanto da apparire ‘invisibile’ ai tradizionali mezzi di rilevamento usati della tradizionale storiografia economica.
3. L’attività imprenditoriale femminile italiana ha assunto negli ultimi decenni una crescente visibilità, forse anche in ragione del fatto che dalle analisi più recenti appare di tutta evidenza come l’inclusione delle donne sia un efficace strumento di contrasto alla crisi. Il numero delle donne con ruoli di responsabilità in azienda è iniziato a crescere in maniera considerevole nel decennio Settanta, quando circa 193.000 persone si registrarono a vario titolo presso le Camere di commercio come imprenditrici, rispetto alle 64.000 del decennio precedente. Negli anni Ottanta il numero delle imprenditrici registrate triplicò a circa 600.000 e raddoppiò ancora a 1.180.000 nell’ultimo decennio del novecento. Nel 2001 le donne costituivano circa il 25% del totale degli imprenditori italiani. La presenza delle donne aumenta dunque in ruoli ed ambiti finora quasi esclusivamente appannaggio maschile e sono donne, queste, con alta scolarità e competenze in aree differenti.
A giugno 2010 le imprese femminili in Italia risultano essere 1.421.085, con un tasso di femminilizzazione del 23,3 %. A livello nazionale, la crescita delle imprese femminili, avvenuta durante la crisi, ha più che compensato la diminuzione delle imprese maschili. In generale, l’Italia Nord-Occidentale conferma, nel caso delle imprese gestite da donne, una spiccata propensione nel dirigere l’evoluzione del sistema economico verso i servizi avanzati, quindi anche in settori storicamente maschili. Il tasso di femminilizzazione imprenditoriale dell’Italia è del 23,3%.
Tuttavia, se confrontiamo il caso italiano con i dati relativi ad alcuni paesi OECD, è possibile notare come le donne siano meno rappresentate nei consigli di amministrazione delle maggiori società italiane di quanto non lo siano le donne nei paesi presi a riferimento dalla Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OECD) [Gamba,Goldstein, The gender dimension of business elites: Italian women directors since 1934, Working Paper n.127, May 2008].
Nazione | Numero di imprese | Numero di imprese dirette | Percentuale di imprese | Numero di membri | Numero di posti per le | Percentuali di ammini-stratori |
Australia | 200 | 100 | 50 | 1,487 | 129 | 8.7 |
Canada | 500 | 264 | 52.8 | 4,225 | 508 | 12 |
Francia | 40 | 31 | 77.5 | 551 | 44 | 7.9 |
Italia | 296 | 179 | 60.5 | 4,347 | 291 | 6.7 |
Giappone | 2,396 | 72 | 3 | 43,115 | 81 | 0.2 |
Norvegia | 521 | 387 | 74.3 | - | - | - |
Spagna | 119 | 38 | 32 | 1,311 | 53 | 4 |
U.S.A. | 500 | 447 | 89.4 | 5,636 | 823 | 14.6 |
U.K. | 100 | 76 | 76 | 1,119 | 123 | 11 |
In Italia il ruolo imprenditoriale delle donne è storicamente un fenomeno carsico che scompare e riappare in relazione alle trasformazioni tecnologiche, organizzative e, ovviamente, culturali. Nel passato le donne, usualmente identificate con la sfera domestica, divenivano agenti economici solo qualora la necessità lo rendesse indispensabile. Tuttavia, nel secondo dopoguerra si distinsero figure femminili emblematiche dal punto di vista imprenditoriale, come Angiola Maria Barbizzoli che con tenacia ristrutturò l’azienda Campari, oppure, nel comparto dell’abbigliamento, le figure di Silvana Spadafora e quella di Paola Fendi. Troviamo poi Anna Bonomi Bolchini che, seguendo le orme paterne, puntò sulla ricostruzione edilizia del Paese dopo il secondo conflitto mondiale e, ancora, Maria Luisa Cosso che, con un passaggio generazionale forzato dalla prematura morte del padre e del fratello in un incidente stradale, completamente digiuna di competenze meccaniche, continuò e sviluppo l’attività paterna, introducendo innovazioni di prodotto e di processo che fecero della Corcos un’azienda leader del settore. Queste sono solo alcune delle storie, alcune delle donne emblema del mutamento imprenditoriale del nostro Paese, ma molte altre storie si potrebbero raccontare.
4. Le politiche per le pari opportunità sono un insieme di interventi finalizzati alla rimozione degli ostacoli alla partecipazione politica, economica e sociale dovuti all’appartenere a uno dei due sessi. Queste politiche prendono atto del divario di opportunità che attualmente penalizza le donne per porre in essere strumenti normativi e di controllo atti a promuovere iniziative di riequilibrio. In questo senso, la stesura del rapporto nazionale Impresa In genere ha prodotto una serie di suggerimenti pratici per attuare un nuovo modello di sostegno alle imprese,declinato in un’ottica di genere. Tale modello prevede la semplificazione delle procedure per la creazione e la costituzione di servizi alle famiglie; l’estensione di servizi pubblici con nuovi mix di gestione pubblico/privato di sostegno alle famiglie; la creazione di sportelli di informazione e di consulenza per aspiranti imprenditrici e/o imprese consolidate presso le associazioni di categoria e le camere di commercio con un’erogazione di servizi, soprattutto formazione, di qualità, di facile accesso e fruibilità per orari; la presenza, in particolare per le micro-imprese, nelle città e nelle zone extraurbane, di strutture per bambini e adulti con orari, mezzi di trasporto e dislocazione sul territorio tarati sulla base delle diverse realtà territoriali.
Tuttavia, è opinione di chi scrive che per progredire in questo campo sia necessario rendere evidente a tutti la stabilità stessa di categorie culturali, quali appunto il genere, insistendo su come l’ opposizione stessa fra maschile e femminile, ancora presupposta dalla vasta maggioranza della popolazione come “naturale”, sia invece una categoria socialmente costruita e su come sia prodotta e produttrice di particolari relazioni sociali e culturali. In Italia lo sviluppo delle politiche di pari opportunità è stato fortemente ritardato proprio per l’inerzia con cui si è affrontata la radice culturale della disuguaglianza di genere. Per fare questo sarebbe forse necessario adottare innanzitutto una diversa prospettiva con cui guardare al maschile e al femminile: non più come due termini distinti che si escludono a vicenda, ma come le due parti di un unico insieme, uguali e diverse allo stesso tempo, ma dotati degli stessi diritti e doveri.
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