1. Gli anni Novanta del secolo appena trascorso hanno rappresentato il decennio di svolta per quella che uno studioso inglese di strategia, Colin S. Gray, ha denominato «grammatica della guerra».

Il crollo della potenza sovietica ha determinato uno stravolgimento definitivo dello scenario internazionale, segnando la fine del bipolarismo che aveva dato vita alla Guerra Fredda e facendo emergere una situazione che già esisteva precedentemente, ma che il pericolo di una guerra termonucleare mondiale aveva offuscato quasi completamente: una realtà costituita da instabilità e conflitti di ordine regionale. Nel 1993, l’allora segretario alla Difesa degli Stati Uniti Dick Cheney (che diverrà poi vicepresidente negli anni di Bush junior) firmò un documento di bilancio della politica di difesa, concernente gli anni di mandato appartenenti a Bush senior, significativamente intitolato Defense Strategy for the 1990s: The Regional Defense Strategy. Il rapporto era chiaro: niente più grandi guerre che presupponessero armamenti nucleari e un ampio spettro di sistemi d’arma convenzionali su vasta scala (seppure si dovesse restare all’erta anche da tale prospettiva, negli anni a venire), ma continuo controllo e raccolta di informazioni nei confronti di minacce circoscritte ad aree «calde» ben specifiche.

2. Se tutto ciò poco si confà ad attori internazionali marcatamente postmoderni, a volte ad alto tasso di «reticolarità» come Al-Qaeda, i pirati, i terroristi informatici, o i perpetratori di attentati con finalità idiosincratiche (quale, ad esempio, la setta giapponese responsabile dell’attacco alla metropolitana di Tokio nel 1995), il contenuto del bilancio di Cheney è ancora oggi assai prezioso al fine di analizzare la risposta degli Stati Uniti e, più in generale, di tutto il cosiddetto Occidente, al nuovo pericolo delle aree turbolente disseminate sul globo.

Si parla di attacchi preventivi, di tattiche e mezzi che permettano di colpire obbiettivi in modo circoscritto, dell’utilizzo delle nuove tecnologie elettroniche. È piuttosto evidente che il modello di strategia teorizzato dagli analisti di Cheney è, nelle vaste dimensioni consentite dalle forze armate statunitensi e dettate dall’impegno internazionale di una superpotenza (allora dell’unica superpotenza) che si auto-percepisce come garante della tranquillitas ordinis, quello di Israele e del suo apparato militare. Lo Stato ebraico era, infatti, già dagli anni del bipolarismo internazionale, l’avversario naturale di minacce regionali, sia di foggia areale, dunque legate profondamente al territorio e perfino alla terra, in quell’accezione elementare elaborata nella Teoria del partigiano da Carl Schmitt, sia embrionalmente già «postmoderne», ossia di tipo reticolare, e capaci di attirare sostegno (simpatie ideologiche e finanziamenti) in altre aree del mondo, mediante emissari e basisti. Israele è dunque la madre di tutti i «controllori regionali» e delle loro strategie, fin dal suo costituirsi come Stato nel 1948.

3. All’indomani del crollo dell’Unione Sovietica e dinnanzi alle nuove guerre di tipo regionale, fatte di recrudescenze nazionalistiche, odi etnici e monolitismi religiosi, diversi studiosi ed analisti hanno notato come tali fenomeni si accompagnino però ad elementi propri del contesto attuale: attenzione ai mezzi di comunicazione di massa in primis, ma anche utilizzo di strumenti altamente tecnologici da parte degli stessi terroristi, pirati, o guerriglieri.

Ciò su cui ci soffermeremo sono i primi: i media di comunicazione, sia che veicolino informazioni apparentemente «nude», sia che costruiscano narrazioni, anche esplicitamente di finzione. Uno studioso americano, Ralph Peters, sottolineava, a proposito delle guerre nelle repubbliche ex sovietiche e del conflitto somalo, come spesso i combattenti paramilitari utilizzassero soprannomi anglosassoni derivati da film di Hollywood e assumessero, di fronte alle telecamere dei giornalisti, una histrionic self-image. Il generale e analista italiano Carlo Jean evidenziava invece, nell’ormai lontano 1996, come ciò che egli denominava videopolitica, o CNN-politics, avrebbe costituito, specie in televisione e nell’ambito dei media informatici, un vero e proprio campo di battaglia, parallelo a quello sul terreno. Facendo appello al fatto che i media, inclusi i più «neutri» tra gli organi di informazione, appaiono spesso proni a passioni o, comunque, ad orientamenti di ordine politico (ma a volte, anche semplicemente ideale), i quali lasciano spazio a manipolazioni del consenso e alla disinformazione, Jean giungeva ad una sorta di profezia, rilevando che essi tendono ad assumere importanza decisiva nelle situazioni di vuoto della leadership politica.

Inutile sottolineare ulteriormente quanto tale affermazione risulti calzante in un momento di crisi economica, di movimenti «antipolitici» fioriti sul web e di Wikileaks.

4. Israele e, in generale, l’area mediorientale hanno sempre costituito luoghi di avanguardia. Basti pensare alla strategia dei cosiddetti cani da guardia, ossia giornali, programmi televisivi ed ora vasti siti internet, i quali scandagliano ogni notizia riguardante il conflitto israelo-palestinese, lamentando dolo manipolativo a svantaggio della parte che sostengono.

Il dibattito accademico e intellettuale esterno alla regione, specie negli Stati Uniti, ha coinvolto studiosi che hanno sostenuto l’uno o l’altro attore internazionale, quasi in modo incondizionato: si prendano ad esempio gli internazionalisti John Mearsheimer e Stephen Walt, rispettivamente dell’Università di Chicago e di Harvard, con il loro libro intitolato The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy, marcatamente anti-israeliano e anti-sionista, o l’avvocato e giurista Alan Dershowitz, anch’egli di Harvard, il quale, nel volume The Case for Israel, replica, con elementi che egli qualifica come prove, a «memi» non solo mediatici sul conflitto mediorientale. Anche due documentari cinematografici, uno intitolato Pallywood (termine che fonde, sul modello di «Bollywood», le parole Palestine e Hollywood) del regista e storico Richard Landes, l’altro Décryptage, dei francesi Jacques Tarnero e Philippe Bensoussan, si sono recentemente schierati a favore dello stato di Israele, denunciando una sproporzione filo-palestinese nei media europei e americani, rei anche, soprattutto secondo Landes, di affidarsi troppo acriticamente a reporter arabi freelance.

L’ultimo breve conflitto che ha colpito la cosiddetta Striscia di Gaza (14-21 novembre scorso) è esempio paradigmatico di guerra postmoderna, così come è stata sinteticamente tratteggiata sino a ora. Si tratta infatti, di un’area fortemente circoscritta, nella quale persino i combattenti (palestinesi), pur legati all’elemento-terra e conservando un nemico comune nello Stato di Israele, si trovano parcellizzati in fazioni politicamente e religiosamente contrapposte, mentre grande influenza assumono i media quanto alla «gestione narrativa» delle contingenze.

L’operazione israeliana nella striscia, nominata ʿAmúd ʿAnán, ossia Pilastro di nubi, si è svolta soprattutto mediante attacchi aerei mirati, in risposta ai numerosi lanci di missili che le brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare di Hamas e altri gruppi militanti, hanno consumato a danno di città frontaliere israeliane negli ultimi mesi e che venivano giustificate come atti di rappresaglia rispetto alla contromisura del blocco della striscia da parte dello stato ebraico. Pilastro di nubi è ufficialmente cominciata alle 16,00 (ora israeliana) del 14 novembre, con l’uccisione mirata di Ahmed Jabari, il capo del gruppo militare responsabile della maggior parte degli attacchi stand-off con l’utilizzo di razzi.

Successivamente, le stesse forze armate israeliane hanno diffuso un video dell’obbiettivo colpito, proprio per contrastare eventuali pratiche di disinformazione ad opera dei palestinesi. Le incursioni israeliane hanno poi distrutto alcuni depositi di armi e munizioni dislocate in luoghi popolati (allo scopo di scoraggiare bombardamenti più ampi), dove erano conservati anche alcuni missili a lungo raggio, di fabbricazione iraniana. Proprio l’utilizzo della tattica degli «scudi umani», in questo caso coincidente con l’impiego di zone residenziali per stoccare materiale bellico, la quale ricopre la consueta finalità di rendere impossibili le operazioni per «costringimenti di ordine morale», usando la terminologia coniata dallo stratega militare Roger W. Barnett, ha condotto alla morte del figlio di un giornalista della BBC Arabic, notizia immediatamente riportata sia in occidente sia nei paesi arabi.

Fin dall’inizio degli attacchi, l’operazione è stata quindi contrappuntata da un uso massiccio dei media, sia con intenzioni di attacco, sia di difesa, per il dominio narrativo dell’opinione pubblica. Anche sui social networks si è combattuta un’aspra battaglia, a cominciare dalle raccapriccianti fotografie di tre bambini dilaniati con la loro madre, diffusa dal sito Alarab Net come facente parte della tragedia di Gaza e immediatamente commentata dagli utenti di Facebook, immagini che si è poi scoperto provenire dallo scenario della guerra civile in Siria. Le stesse brigate Qassam hanno fatto largo utilizzo di messaggi tramite Twitter. Questa volta però, contrariamente a quanto era spesso accaduto in passato (quando ci si rivolgeva sostanzialmente alla sola Europa e a qualche movimento panarabo laico), la guerra mediatica da parte palestinese si è concentrata sull’ottenere una reazione da parte degli stati arabi rinnovati dalle cosiddette «primavere» e, in modo particolare, dall’Egitto di Mohamed Morsi, presidente voluto dai Fratelli Musulmani, movimento dal quale hanno preso vita numerosissime organizzazioni fondamentaliste e del quale lo stesso Hamas è una costola.

Questi tuttavia, si è limitato ad alcune generiche condanne verbali. Va aggiunto che un vigoroso impegno da parte egiziana, soprattutto attraverso il ruolo giocato dal ministro degli esteri Mohamed Kamel Amr, ma anche grazie a successivi interventi di Morsi, si è segnalato in direzione dei negoziati di pace che hanno portato al cessate il fuoco del 21 novembre; la sospensione dell’operazione è stata infatti annunciata da Hillary Clinton e proprio da Amr. La tattica mediatica di Israele invece, è stata mirata soprattutto a giustificare l’operazione agli occhi degli Stati Uniti e dei media europei. Uno dei manifesti che hanno circolato sul web nella settimana di Pilastro di nubi, ad opera delle stesse forze armate, consisteva nella grafica stilizzata di alcuni monumenti simbolici dell’occidente (la Statua della Libertà, la Tour Eiffel, il Big Ben e la Sidney Opera House), bersagliati da una pioggia di piccoli missili, sormontati dall’interrogativo «What Would You Do?». L’utilizzo dei mezzi di comunicazione ha costituito per Israele un’opportunità per legittimare la propria condotta; le stesse dichiarazioni del presidente Barack Obama a proposito del diritto di difesa in capo a Israele hanno profondamente sostenuto proprio tale prospettiva.

5. Tutto questo conduce a rilevare come la guerra mediatica sia lo specchio di una strategia più generale che, da parte palestinese, potrebbe forse mirare ad un riallineamento di alleanze dei paesi arabi reduci dalle rivoluzioni attorno alla causa anti-israeliana, ma che ha pochissime probabilità di concretizzarsi, a parte piccoli aiuti e dichiarazioni di solidarietà. Da parte israeliana invece, l’isolamento dell’attuale governo conservatore di Benjamin Netanyahu, incrementato ulteriormente per effetto dell’atteggiamento tiepido assunto dagli Stati Uniti dell’amministrazione Obama, più attenta alle esigenze interne a causa della crisi economica, ha portato a una sorta di disillusione nei confronti dell’opinione pubblica mondiale e quindi, a una generica ricerca della legittimità senza la pretesa di una mozione delle coscienze in favore dello stato ebraico. Come ha sostenuto Umberto De Giovannangeli su Repubblica online, l’operazione israeliana nella striscia ha anche rappresentato, agli occhi degli Stati Uniti, la scelta temporanea di un obbiettivo minore, di una «piccola guerra», la quale ha sviato per ora l’attenzione, rispetto al potenziale conflitto che potrebbe scatenarsi con l’Iran; tuttavia egli auspica che anche tale situazione non si inasprisca al punto di trasformarsi in uno sconvolgimento regionale dell’area del Medio Oriente.

Siamo tornati al punto di partenza: la grande paura attuale è ancora quella delle minacce regionali, la stessa che ha animato il nuovo corso della politica di difesa americana dopo il crollo dell’Unione Sovietica e ancora di più, dopo l’11 settembre del 2001. Attualmente, la strategia di “controllo e contenimento” delle minacce regionali è ancora perseguita tra le pareti del Pentagono ed è innegabile che abbia la sua origine, il suo Anfang, come direbbero i mitografi, ma soprattutto i suoi metodi, nelle guerre che funestano da anni antichi popoli, a causa di un recente stato, in quella delicata area che è la regione mediorientale.

6. La guerra di Hamas ha fallito, nonostante le numerose dichiarazioni propagandistiche successive al 21 novembre sulla presunta “ritirata” da parte di Israele, il quale avrebbe agito scoraggiato dalla tenacia dei combattenti delle brigate e dal sostegno morale egiziano. Lo scacco di Hamas si è registrato ufficialmente una settimana dopo, il 29 novembre, quando l’Assemblea Generale della Nazioni Unite, in un voto di centotrentotto su centotrentanove, ha riconosciuto l’Autorità Nazionale Palestinese, sotto la presidenza di Abu Mazen, leader di Fatah, come non-member observer State. I vertici di Fatah, laici e maggiormente inclini alle vie diplomatiche, si contendono la leadership con la maggioranza parlamentare costituita dai fondamentalisti “militaristi” di Hamas, che prevalgono nella Striscia.

Tuttavia, come ha affermato l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Susan Rice, si tratta di una vittoria evanescente, in quanto nessuna soluzione può dar vita ad uno Stato, dove non vi sono le premesse di una effettiva statualità. Secondo la Rice, i palestinesi, si renderanno presto conto che nulla è realmente cambiato e che la frammentazione persiste. Saranno ancora una volta i media, invocati dalle parti, a confezionare l’ennesima versione delle contingenze e degli inevitabili conflitti di Pallywood e toccherà a tutti gli osservatori attenti dover decrittare le loro costruzioni, come hanno ben riassunto i due registi francesi Tarnero e Bensoussan.