1. L’Europa, come unità politica e culturale, merita ancora, se non proprio un posto di riguardo, almeno una menzione nei programmi elettorali americani?

Viene da chiederselo, viste le proposte in tema di politica estera dei quattro candidati repubblicani rimasti in corsa per la Casa Bianca (Mitt Romney, Newt Gingrich, Ron Paul e Rick Santorum): un desolante spazio bianco, un segno di come i tempi stiano rapidamente cambiando.

Poco importa che il vincitore delle ultime primarie della South Carolina, Newt Gingrich (vincitore con un margine consistente, ma tutt’altro che risolutivo), ami citare figure storiche europee, da Pericle a De Gaulle, e che abbia paragonato la politica estera di Obama all’appeasement di Chamberlain (“this is Munich all over again”, ha detto); o ancora, che Mitt Romney – che vive ora il suo momento più difficile – abbia accumulato il proprio credito diplomatico nei viaggi in Europa e nel lungo soggiorno in Francia, nel lontano 1968.

In questo 2012, questa America non guarda al vecchio Continente. E quando lo fa, pensa alle singole nazioni che ne compongono lo scenario, non certo all’Unione Europea o all’Eurozona come soggetti geopolitici di un qualche interesse. Rick Santorum, per esempio, nel suo programma parla dei rapporti con Polonia e Repubblica Ceca (che, non casualmente, insieme alle altre nazioni dell’Est europeo sono le uniche a contribuire in modo ancora significativo all’immigrazione europea negli Stati Uniti). Romney si rivolge più specificamente alla special relationship americana con la Gran Bretagna, equiparata però nell’attenzione americana a Israele e al Messico; o, ancora, ai rapporti da coltivare con Russia, India, Turchia.

2. Il dato interessante del recente voto nel southern state è lo spettacolare frazionamento del campo conservatore. Non si può leggere il risultato del voto in South Carolina senza tenere presente contemporaneamente quello del New Hampshire, dove Romney ha vinto una settimana prima, e quello dell’Iowa ancora prima, dove - come annunciato dopo un penoso riconteggio - alla fine ce l’ha fatta di misura Santorum. Tre diversi vincitori nei primi tre Stati, una situazione inusuale.

Ma quello che accomuna gli esponenti repubblicani citati, che nelle lunghe pagine di analisi dedicate alle visioni di politica estera si limitano a chiedere una politica di intervento più muscolare rispetto a quella di Obama, scompare l’Europa come spazio politico, come partner strategico. Segno di quanto poco gli Stati Uniti credano nell’integrazione europea? E nemmeno, a dire la verità, si trovano grandi riferimenti all’Occidente, come orizzonte anzitutto culturale e ideologico, come elaborazione concettuale che aveva trovato la massima espressione a cavallo tra la Guerra fredda e gli anni che seguirono la caduta del Muro.

Esiste l’America, sola e autonoma, con un sistema di alleanze internazionali, certo; esiste - in modo ossessivo - l’eccezionalismo, l’unicità della presenza americana nel mondo, il suo volto di nazione eletta.

3. Da Huntington in avanti, la politica estera americana degli ultimi due decenni aveva investito in modo rilevante sul riconoscimento di una civilizzazione occidentale messa davanti a un inevitabile scontro con le altre culture del mondo.

A cominciare da quella islamica. Un discorso ideologico che rilanciava il neoconservatorismo al di fuori dell’alveo in cui esso era nato, la Guerra fredda e la minaccia sovietica, per inserirlo nel mutato quadro delle relazioni internazionali post-sovietiche.

L’interventismo clintoniano, la guerra in Iraq e la dottrina Bush, il pensiero di neoliberali come Paul Berman e di grandi eclettici come Christopher Hitchens: quei tempi sono finiti, ci ricordano i candidati repubblicani alla Casa Bianca. Non è finita la minaccia dell’integralismo islamico, che anzi Obama sottovaluta, secondo Gingrich, Romney e Santorum, ma l’America deve curare il suo sistema di alleanze in modo autonomo rispetto all’eredità culturale atlantica, che ha fatto il suo tempo. Nel Pacifico quanto in Sudamerica, a nord come a sud, in Africa tanto quanto in Asia centrale o nel Medio Oriente, l’America si muove con una libertà che è la misura dell’allontanamento dalle proprie origini.

Certo, sfumature esistono. Senza citare l’aperto isolazionismo di Ron Paul, si intravvede in Romney un’attenzione al prestigio, alla stabilità e al potere che ricorda certi tratti di Nixon e Ford; il sostegno di Ginrich a Israele è forse più pronunciato che negli altri; la matrice da moral majority di Santorum lo porta a chiedere che l’America si curi più, in Cina, della libertà religiosa che degli attivisti dei diritti umani (prospettiva curiosa).

Di fronte a questi differenti umori il voto in Florida di domani, 31 gennaio 2012, rappresenta la sfida in uno Stato della sunbelt tradizionalmente legato all’apparato difensivo, alle basi e al personale militare, ed è quindi anche simbolicamente rilevante. Gingrich è avanti, di misura, anche lì, e poco inciderà che Romney abbia rivelato l’entità delle tasse pagate negli ultimi due anni (il 15%, un dato che fa venire i brividi a un qualsiasi europeo). Ecco allora sorgere un’opzione affascinante, una exit strategy che per ora resta solo nel campo delle ipotesi: e se si facesse avanti una diversa figura?

4. In molti pensano a Mitch Daniels. Bill Kristol, figlio del padre del neoconservatorismo, l’ha detto in un’intervista a Christian Rocca, corrispondente da Washington per il Sole 24 Ore: forse è l’ora di Daniels.

Governatore dell’Indiana, apprezzato da moderati come David Brooks, l’editorialista del New York Times che nel 2008 guardava a Obama come il nuovo profeta della terza via, preciso e circostanziato nelle cifre che fornisce in modo leggendario, Daniels non ha il fardello superideologico (e lo stile verboso) di Gingrich ma nemmeno il retaggio melanconico da vecchio establishment repubblicano di Romney. Ha guidato lo Stato del Midwest ai primi posti delle graduatorie per l’apertura del mercato e opportunità di investimento, è competente e misurato.

In un partito repubblicano disorientato e diviso, forse Mitch Daniels potrebbe fare la differenza.