È dal 1962 che Cina e India si fronteggiano lungo il confine montano del Karakorum. Le scaramucce sono frequenti e il confine fra le due potenze asiatiche non è stato mai formalizzato da un trattato. A tutti gli effetti, si tratta di un confine aperto alle dispute. Ma allora cosa ha potuto evitare che gli scontri sul Karakorum portassero ad una guerra di confine tra Cina e India? E come leggere la recente decisione indiana di dislocare un nuovo corpo d'armata lungo il confine conteso?

1. La chiamano Line of actual control (Lac). È il confine provvisorio che corre tra Cina e India e che spartisce il Karakorum tra le due giurisdizioni. Actual, da intendersi come fattuale. Vale a dire: così è nella realtà, sebbene non ci sia un documento che lo attesti. È dal 1962, anno della guerra fra Pechino e Delhi, che la frontiera fluttua nella provvisorietà. Un confine de facto che continua a essere teatro di tensioni e microscontri militari. L'ultimo risale alla metà di aprile, quando una pattuglia dell’esercito cinese (People’s Liberation Army, Pla) ha piantato le tende oltreconfine per circa tre settimane, per poi rientrare in caserma. Il gesto è stato accolto da Delhi inizialmente come una provocazione. Poi, visti gli interessi economici comuni, il caso è stato fatto correre via.

Se non che la scorsa settimana, dopo il proficuo incontro tra il premier cinese Li Keqiang e quello indiano Singh, la questione è tornata alla ribalta per l’India il cui Stato maggiore ha deciso di costituire un nuovo corpo d’armata alpino: 90 mila uomini con forza d’attacco (strike corps). Il ministero delle finanze ha già stanziato 12 miliardi di dollari per la mobilizzazione delle truppe. Obiettivo: ingrossare le difese della Lac e porre fine agli sconfinamenti del Pla.

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2. È difficile definire con esattezza quali siano gli attriti permanenti tra gli apparati di difesa cinese e indiano. In parte hanno i tratti della guerra fredda, non solo perché le tensioni si consumano a quote superiori ai 3mila metri. I due eserciti si fronteggiano saltuariamente, scambiano scontri a fuoco, ma evitano di far degenerare la situazione in un conflitto aperto. È un conflitto a bassa intensità, questo.

Tuttavia, la guerra fredda – quella vera, tra i blocchi Usa e Urss – implicava ripercussioni a livello planetario. Bastava che un aereo spia sorvolasse il cielo del èaese nemico e subito il mondo temeva l’escalation. Oggi quanto accade lassù, sul Karakorum, è talmente lontano – e frequente – che nemmeno le rispettive autorità centrali vi dedicano attenzione.

Per tutto il mese di maggio, è stata Delhi a sottolineare che incidenti di confine come quello di aprile sono all’ordine del giorno. Si conta una media di sei o sette trasgressioni al mese da ambo le parti. Ed è su questa frequenza che generalmente si è voluto minimizzare il livello di aggressività dei fatti. Questa volta potrebbe non essere così. Piano però con gli allarmismi.

Della guerra fredda resta comunque la deterrenza. Le due superpotenze nucleari d’Asia si posizionano al primo e al secondo gradino del podio delle Forze armate più numerose del mondo. Sono 2,2 milioni i cinesi in armi. Contro l’1,1 milioni di indiani. Tuttavia, se a questi si aggiungono 960mila riservisti indiani, il divario tra le forze armate indiane e quelle cinesi si riduce sensibilmente.

Differente è il caso delle spese per la difesa. Secondo la Cia, la Cina indirizza al comparto il 2,6% del proprio Pil, contro l’1,8% dell’India. Tuttavia, la Rand Corporation, think tank statunitense da sempre attento alle dinamiche di sviluppo economico, dubita della genuinità di entrambe le cifre e tende a una revisione al rialzo.

Va fatto in effetti un discorso di qualità, più che di quantità. Dato per assodato che i soldati cinesi e quelli indiani sono tanti – luogo comune banale quanto – bisogna ricordare come sono utilizzati questi investimenti.

Sul piano nucleare, la Cina fa da battistrada, con le sue 250 testate nucleari. Il doppio di quelle indiane. Ora, sebbene Sipri, l’istituto svedese per la pace, denunci un aumento degli arsenali di entrambi (e pure di quello pakistano), va ricordato che Pechino e Delhi condividono la medesima dottrina del “non primo uso”. Cioè non ricorrere alle armi nucleari contro qualsiasi altro Stato a meno di non essere attaccati con le medesime. Da anni inoltre nessuno dei due governi ha effettuato test. Questo significa che il settore è in stand by.

Sul piano delle armi convenzionali, la tendenza è inversa. Mentre l’India assorbe il 12% del mercato, importando armi da tutto il mondo, la Cina vende strumentazione ai suoi alleati. In primis il Pakistan, che di Delhi è l’avversario principe. Il conflitto, in questo caso, si consuma sulle vette del Kashmir.

Quel che emerge è quindi una Cina che mantiene una linea di sostanziale autonomia e primato. Segno che il Pla è una forza armata affermata, con un suo settore di ricerca e sviluppo ben definito. L’India al contrario arranca. O per lo meno, rincorre. Fa appello all’Occidente, da cui riceve consulenza in ambito nucleare nonché importanti quantitativi di armi e strumentazione bellica.

Nel confronto con la Cina, peraltro, l’India arranca in senso più generale. Nella sicurezza, nell’economia e nella diplomazia (vedi le sue ambizioni di ottenere un seggio permanente al consiglio di sicurezza dell’Onu). Arranca perché in ogni comparto vuole raggiungere la Cina. E in futuro auspica un sorpasso.

Ma allora cosa ha evitato finora che gli scontri sul Karakorum fossero detonatori di conflitti di maggiore dimensione?

3. Le scienze sociali non hanno il diritto di fornire risposte certe. Si può far ricorso alla dottrina, però. Come ai tempi del confronto Usa-Urss, non si giunge al punto di rottura per evitare la fine di tutti. Pechino e Delhi quindi preferiscono lo stato di fattualità. Un confine actual piuttosto che definitivo, appunto. Tecnicamente questo è proprio di una guerra fredda. O più in generale, è uno scontro tra colossi che evitano sempre la collisione. Per la legge della compensazione, se uno dei due soggetti dovesse crollare, anche l’altro rischierebbe il collasso. In una partita c’è sempre bisogno dell’avversario.

Ricorrendo all’economia, si può rispondere riprendendo gli interessi comuni sul mercato globale spiegati in una puntata precedente. Ma da aggiungere c'è una motivazione che ha molto dell’antropologia. È un atteggiamento comune a tante civiltà asiatiche quello di soprassedere evitando che una decisione forte inneschi ripercussioni ingestibili. Lasciar correre sul Karakorum vuol dire un po’ questo: gli interessi sono troppi, e i soldi pure, per essere compromessi dalle scaramucce tra soldati al limite dell’ipotermia.

La cronaca al contrario sembra non voler dare ascolto a queste teorie. Il dispiegamento in alta quota del nuovo corpo d'armata indiano potrebbe rappresentare il prologo di un’escalation. Sembra che il contingente alpino sia composto da due divisioni di fanteria, una di artiglieria, due brigate corazzate e unità di supporto. L’aeronautica indiana inoltre avrebbe rafforzato la presenza di aerei da combattimento ed elicotteri schierando 36 dei 200 nuovi cacciabombardieri Sukhoi Su-30Mki in acquisizione dalla Russia. Mentre Pechino si sarebbe limitata a dispiegare alcuni lanciatori mobili per missili balistici Df-21.

Sono venti di guerra? La storia – ossia la scienza sociale che meno si aggrappa alle teorie – dimostra quanto già in passato le sorti di uno scontro sino-indiano siano state scritte dall’indifferenza. Era il 1962. Le due nazioni, allora molto più povere e agguerrite, si confrontarono in un conflitto che il mondo quasi non ricorda. Era il novembre 1962 e la crisi missilistica di Cuba condannò il conflitto del Karakorum alla serie B.

Oggi il mondo è cambiato. Cina e India sono protagoniste, e se si fronteggiassero sicuramente l’apprensione sarebbe maggiore. Ma, è il caso di ripeterlo, alla luce degli interessi commerciali, quanto valgono previsioni così allarmanti?