In una recente intervista, il Presidente Obama rifiuta l’idea di ricorrere alle armi pur di dare seguito ai moniti della politica estera statunitense. Meglio è essere realistici sulla capacità degli Stati Uniti di risolvere i problemi e lavorare per costruire consenso in campo internazionale.
La politica estera dell’America è una vacca sacra alimentata dall’inossidabile fiducia nello strapotere militare degli Stati Uniti e dalla diffusa convinzione che la credibilità della superpotenza è la componente cruciale che va mantenuta, ove necessario, con l’impiego della forza.
Questa convinzione è alla base dei costanti attacchi dei Repubblicani, ma anche di certi ambienti democratici, alla politica estera del Presidente Obama e segnatamente alla sua decisione di non intervenire nella guerra civile in atto nella Siria anche dopo l’ultimatum rivolto al presidente siriano Bashar al-Assad per il possesso di armi chimiche. In una straordinaria intervista al corrispondente della rivista Atlantic Jeffrey Goldberg, il Presidente Obama ha respinto l’argomento secondo cui la credibilità degli Stati Uniti è un cardine della politica estera americana che va sostenuto con il ricorso alle armi. L’idea che la minaccia di un’azione militare possa influenzare il processo decisionale della Russia o della Cina è in contrasto con l’evidenza dei fatti storici degli ultimi cinquanta anni, ha detto in pratica Obama. Tra coloro che credono invece nell’impiego della forza è l’aspirante democratica alla presidenza Hillary Clinton secondo la quale “se uno dice di essere pronto a colpire, bisogna colpire. Non c’è scelta”.
La conclusione principale che emerge dall’intervista è che la visione strategica del Presidente Obama fa ampiamente affidamento sulla ricerca e costruzione di un consenso in campo internazionale piuttosto che sulla minaccia o l’uso della forza. Questa è la ragione per cui Obama non risparmia critiche a quei Paesi che pensano solo a trarre benefici dalla protezione dell’America senza impegnarsi nell’opera di ricerca di stabilità al mondo. È una critica che vale anche per gli europei. Obama confessa anzi di aver riposto una fiducia eccessiva negli alleati europei dell’America quando si trattava di articolare e imporre un “seguito” negoziale alla frammentazione della Libia successiva alla distruzione del regime di Gheddafi.
Di fatto, l’attenta lettura di Atlantic non può che confermare l’immagine di Obama che è emersa in sette anni della sua presidenza, quella cioè di un presidente che rifugge dall’interventismo militare. In termini storici, la riluttanza di un Presidente americano ad intervenire militarmente è qualcosa di eccezionale. In tema di eccezionalismo, un’altra rivelazione di Obama è che l’eccezionalismo dell’America ampiamente celebrato da politici e intellettuali presenta grossi limiti. Obama osserva che “una delle ragioni per cui mi sforzo di intraprendere azioni miltilaterali laddove non sono in gioco i nostri diretti interessi è che il multilateralismo regola l’arroganza”. “Dobbiamo tenere a mente la nostra storia quando cominciamo a parlare di interventi”, ammonisce Obama, con un’ammissione che certamente non gli procura molti applausi.
Barack Obama certamente non si cura delle accuse di radicalismo che gli vengono rivolte da più parti, ma è indiscutibile che i suoi critici hanno un buon argomento quando lo accusano di arroganza. Di fatto, Obama è un Presidente che fa il minimo indispensabile quando si tratta di spiegare agli americani che è impossibile imporre una Pax Americana e, in termini più pratici, mantenere l’ordine nello scenario globale. Per Obama, laddove gli Stati si combattono mediante “proxy wars”, come avviene oggi nel Medio Oriente, l’intervento esterno può fare poco. Ed è questa l’unica risposta che si può dare a quanti asseriscono che gli Stati Uniti avrebbero potuto fare molto di più perché prevalessero i ribelli scesi in campo contro la dittatura di Assad. Agli occhi dei critici, il realismo di Obama sconfina invece in una forma di fatalismo quanto mai evidente quando lo stesso Obama osserva, quasi sconsolatamente: “Ci sono delle volte quando noi possiamo fare qualcosa per gli innocenti che vengono uccisi, ma ci sono anche volte in cui non possiamo far niente”. Di fatto, il pensiero di Obama è lungi dall’essere influenzato da emozioni. A proposito della Siria, la tragedia alla quale può essere ricondotta la confessione di impotenza di Obama, vale certamente la sua osservazione realistica: “L’idea che noi avremmo potuto cambiare l’equazione sul campo – in una misura chiara che non impegnasse le forze armate degli Stati Uniti – non risponde a verità”.
La “legacy” ossia il legato di Barak Obama è di per sé un problema complicato dall’irriducibile viscerale opposizione di molti americani al primo presidente nero nella storia nazionale. Il fatto stesso che Obama sia una personalità complessa (una delle accuse che gli vengono rivolte è quella di considerarsi “il più intelligente nella stanza”) porta acqua al mulino di quanti si sforzano di ridurre l’esposizione di una “dottrina Obama”. La propensione a classificare il corso degli eventi con la forzatura di una grande strategia personalizzata in una “dottrina” equivale ad una eccessiva semplificazione. Dal canto suo Obama l’ha praticamente ripudiata preferendo una visione che affronta le problematiche internazionali con una norma di una semplicità disarmante, quella di “non fare cose stupide”. Tra i principi realistici che Obama invoca nel giusto spirito è quello di percepire nel modo corretto tali problematiche. Obama avverte che l’ISIS “non rappresenta una minaccia esistenziale agli Stati Uniti”, mentre “il cambiamento climatico è una potenziale minaccia esistenziale per il mondo intero se non ci decidiamo a fare qualcosa per arrestarla”.
Resta il fatto che riconoscere un problema d’ordine internazionale non impegna gli Stati Uniti a risolverlo, ma chiama la dirigenza del Paese a scegliere – dice Obama – dove e come ottenere un certo risultato. Qualche osservatore non ha mancato di rilevare che, in sostanza, Obama sembra applicare il famoso detto di Lord Palmerstone secondo cui gli Stati non hanno amici o alleati permanenti, ma solo interessi permanenti. Piuttosto che caratterizzare gli altri Paesi come alleati o avversari, dice in sostanza Obama, è più importante considerare ciò che essi fanno a favore o contro gli interessi degli Stati Uniti.
Il realismo insomma è insito nella decisione di non schierarsi necessariamente da una parte in un conflitto tra altri Paesi. Ma è un realismo che si scontra con la visione tradizionale dello establishment di politica estera di Washington e di una massa di americani animati da una incrollabile fede nella capacità dell’America di risolvere i problemi del mondo. Il presidente parla dal “pulpito” della Casa Bianca, come lo definiva Theodore Roosevelt, ma nel caso di Obama molti americani non gradiscono un pulpito intellettuale. Nell’intervista di Atlantic Obama ammette di non avere prestato abbastanza attenzione a sentimenti ed emozioni nel comunicare “quello che facciamo e come lo facciamo”. Ma il mondo contemporaneo dei mezzi di comunicazione di massa - ed in modo particolare di quelli sociali - rende quanto mai arduo il compito di comunicare con i cittadini, anche per un presidente come Obama dotato di grande comunicativa. In conclusione, comunque, un fatto è certo, che Obama ha cercato saggiamente di far comprendere agli americani che esistono limiti alla potenza dell’America e che il realismo non è debolezza. Né vi è dubbio che il suo “legato” è di aver gestito la politica estera dell’America con intelligenza oltre che con senso di realismo. Il tempo non potrà che convalidare questo “legato”.
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