La battaglia per il matrimonio egalitario e le unioni civili continua ad animare il confronto interno al liberalismo italiano, spaccato tra correnti neutraliste (per cui vale il principio della neutralità dello Stato rispetto a qualsiasi formazione sociale) e coloro che accettano che lo Stato riconosca alle famiglie un particolare valore positivo.

Da un punto di vista liberale il matrimonio, che sia o meno esteso alle coppie omosessuali, può essere fonte di un certo imbarazzo. Ciò, almeno dal punto di vista di quella corrente oggi piuttosto influente del liberalismo – il liberalismo “neutralista” – che identifica un proprio cardine nel principio della neutralità dello Stato, strettamente legato all’ideale dell’eguale rispetto. Si può, infatti, concepire il matrimonio come un istituto giuridico che, nell’indicare specifiche formazioni sociali come dotate di valore al punto da meritare un riconoscimento pubblico, le sanziona positivamente, esprimendo, per conto della comunità politica tutta, un apprezzamento nei loro confronti e negandolo a formazioni sociali diverse. In effetti, la posta in gioco nell’attuale battaglia culturale e politica per il matrimonio egalitario e le unioni civili è anche simbolica: le famiglie omosessuali chiedono che sia riconosciuto il loro valore e, auspicabilmente, che sia riconosciuto loro lo stesso valore riconosciuto alle famiglie eterosessuali.

L’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, pur riducendo il carattere discriminatorio e non neutrale di quell’istituto, non risolverebbe il problema. Ad altre formazioni sociali, espressione di modi alternativi di vivere le relazioni affettive, continuerebbe a essere negata quella forma di riconoscimento. Cosa più rilevante, chiunque, per qualsiasi ragione, ritenga contestabile il sistema di valori di cui il matrimonio è permeato potrebbe avere qualcosa da obiettare al fatto che lo Stato lo sanzioni positivamente. Il problema, vale la pena ribadirlo, non riguarda solamente l’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali. È la stessa esistenza del matrimonio, come istituto giuridico che riconosce certe relazioni come dotate di valore, a violare, apparentemente, il principio della neutralità dello Stato. Se ciò è vero, solo l’abolizione del matrimonio (giuridico) e il contemporaneo potenziamento dell’autonomia personale dei singoli potrebbe garantire l’eguale rispetto delle libere scelte affettive di tutte le persone.

Il maggior pregio del contributo di Maurizio Ferrera al dibattito sulle unioni civili (contributo pubblicato su Agenda liberale) consiste nell’aver prodotto un argomento normativo, accettabile anche dal punto di vista del liberalismo neutralista (e, a maggior ragione, da prospettive liberali non neutraliste per cui il fatto che lo Stato riconosca alcune relazioni come dotate di valore non è fonte di alcun imbarazzo), a favore di un riconoscimento giuridico delle relazioni affettive stabili tra le persone, quale che sia il loro sesso. Un tale riconoscimento, secondo Ferrera, avrebbe, tra l’altro, la funzione di tutelare le libere scelte private delle persone da ingerenze esterne – delle altre persone e dell’autorità pubblica – in un ambito significativo per la realizzazione di sé, quale è la sfera degli affetti. Non si tratta di manifestare un’approvazione pubblica per le preferenze individuali, quali esse siano; si tratta, semmai, di garantire l’interesse delle persone alla libertà di vivere secondo le proprie preferenze.

Nella sua replica a Ferrera, Salvatore Carrubba sostiene che quel fine, apprezzabile, può essere conseguito attraverso un potenziamento dei diritti di libertà e di autonomia personale dei singoli, non essendovi la necessità di garantire un riconoscimento pubblico alle relazioni affettive omosessuali, che non sarebbe giustificato, nella misura in cui quelle formazioni, diversamente dalle famiglie eterosessuali, non assolverebbero ad alcun compito sociale. Tuttavia, anche limitandosi a considerare l’obbiettivo di proteggere le relazioni affettive tra le persone da ingerenze esterne, si può dubitare del fatto che quel fine possa essere pienamente conseguito attraverso un potenziamento dei diritti dei singoli. Si pensi, ad esempio, al problema della garanzia del ricongiungimento famigliare: la mancanza di quella garanzia rappresenta un impedimento esterno alla possibilità per le persone di coltivare le loro relazioni affettive, per ovviare al quale è necessario un riconoscimento pubblico della rilevanza di quelle relazioni.

Carrubba sostiene inoltre che la logica dell’argomento di Ferrera potrebbe indurre a ritenere di dover conferire rilevanza pubblica anche a relazioni affettive stabili diverse da quelle di coppia. Personalmente, non considero ciò un limite di quell’argomento. Ciò che rende non tollerabile la poligamia, come essa oggi si manifesta, ossia nella forma della poliginia, è che si tratta di un istituto sessista, che non riconosce l’eguale potere di definire e cambiare i termini della relazione a tutte le parti coinvolte. In quella forma la poligamia contrasta con gli obiettivi di garantire l’autonomia delle donne e l’eguaglianza tra i sessi. Ma ciò non esclude che si possano trovare forme per il riconoscimento pubblico di relazioni affettive stabili diverse da quelle di coppia che siano compatibili con quei fini. Uno sguardo non prevenuto alla realtà delle relazioni “poliamorose” potrebbe suggerire l’idea che la coppia non rappresenti il solo modello di relazione stabile in grado di garantire l’eguale rispetto di tutti i soggetti coinvolti.

L’argomento di Ferrera non è il solo argomento normativo compatibile con il liberalismo neutralista che può essere prodotto a sostegno del matrimonio o, comunque, di un riconoscimento giuridico delle relazioni affettive stabili tra le persone. Un altro argomento che può superare quello che, sull’esempio di Ferrera, possiamo chiamare il “test della neutralità”, fa leva sui vantaggi, anche economici, che comporta o potrebbe comportare per la comunità politica il fatto che le persone si assumano impegni reciproci di assistenza e di cura, materiale e non. Così facendo, infatti, le persone sollevano la comunità dall’onere di occuparsi in prima istanza dei bisogni di assistenza e di cura delle persone. Il fatto che il nostro sistema di welfare carichi le famiglie di oneri eccessivi, e richieda pertanto un ripensamento, non significa che non si possa apprezzare il modo in cui le famiglie assolvono a funzioni che, diversamente graverebbero interamente su di una comunità politica che aspiri a essere decente.

Nel suo contributo a questo dibattito Carrubba argomenta che vi sarebbe una differenza essenziale tra la famiglia eterosessuale e la famiglia omosessuale, che varrebbe alla prima, ma non alla seconda, un riconoscimento giuridico quale quello che viene garantito dal matrimonio e che sarebbe garantito, seppure in forma diversa, anche dalle unioni civili. Secondo Carrubba la famiglia eterosessuale assolverebbe a un importante compito sociale. Il fine primario della famiglia eterosessuale sarebbe, infatti, quello di assicurare la riproduzione della specie, un obiettivo al quale le coppie omosessuali non potrebbero dare alcun contributo. Il matrimonio limitato alle famiglie eterosessuali non farebbe che registrare quella differenza essenziale, in presenza della quale non si può parlare di discriminazione, poiché la discriminazione si avrebbe solo qualora casi eguali fossero trattati in maniera diversa. A quell’argomento si possono muovere almeno due obiezioni.

Innanzitutto, è possibile obiettare che oggi il significato attribuito al matrimonio non sembra più legare inequivocabilmente quell’istituto a finalità riproduttive. È possibile sostenere che, storicamente, il matrimonio fosse legato alla riproduzione. Nell’etimologia stessa della parola “matrimonio” rimane traccia di ciò. La funzione del matrimonio era quella di garantire a un uomo il controllo esclusivo su di una donna e l’accesso al suo corpo anche contro il suo volere – l’idea di stupro coniugale è una conquista recente – e, contemporaneamente, attraverso la presunzione di paternità, quello di garantire una legittima discendenza agli uomini e un padre ai figli. Entrambi questi tratti del matrimonio sono stati oggi superati, grazie all’affermazione della parità tra i coniugi e dei diritti della donna anche all’interno del matrimonio e al riconoscimento della rilevanza giuridica, per certi versi prevalente, del rapporto naturale di filiazione, in un contesto in cui quel rapporto è divenuto tecnicamente dimostrabile.

In ogni caso non è la storia a determinare il significato delle istituzioni né l’etimologia delle parole con cui le si nomina. È il modo in cui ci si pone di fronte alle cose, che può mutare nel corso del tempo, a determinare il loro significato. Nessun gruppo sociale particolare può poi rivendicare l’autorità di definire il significato del matrimonio, tanto più che quell’istituto, in varie forme, è preesistente rispetto alle dottrine in base alle quali se ne vorrebbe definire l’essenza. Per molti il matrimonio ha oggi perso il nesso con la riproduzione che aveva un tempo. Tra di loro, chi non si limita a vedere il matrimonio come uno strumento per la tutela dei propri interessi, ma ancora lo carica di valore simbolico, vi vede l’assunzione definitiva al cospetto della comunità di un progetto di vita comune, che può non contemplare il divenire genitori. Tant’è che anche persone non più fertili si sposano, senza che nessuno sollevi obiezioni. È con uno spirito simile che le coppie omosessuali oggi chiedono di accedere al matrimonio.

Ma veniamo alla seconda obiezione all’argomento di Carrubba, quella che rimarrebbe valida anche qualora si volesse mantenere fermo il nesso tra matrimonio e riproduzione. Sostenere che le famiglie omosessuali non possono contribuire alla riproduzione della specie non è esatto. La prova di ciò è che esse già lo fanno. È vero: due persone dello stesso sesso non possono generare. Ma le persone omosessuali sono persone normalmente fertili, che spesso hanno figli nati da rapporti sessuali, e relazioni, con persone dell’altro sesso. Non solo: nel contesto di una famiglia omosessuale può maturare un progetto procreativo che trova poi attuazione, o potrebbe trovarla, con il concorso di altri soggetti. Se poi si interpreta il contributo alla riproduzione in un senso non meramente biologico e si riconosce che le famiglie contribuiscono a quell’obiettivo anche garantendo ai figli le risorse affettive, materiali e culturali di cui necessitano, allora non vi è dubbio che le famiglie omosessuali possano contribuire alla riproduzione della specie.

E pare che le famiglie omosessuali siano in grado di farlo tanto bene quanto le famiglie eterosessuali, pur trovandosi in un contesto loro molto meno favorevole. Ciò, stando a quanto rilevano gli ormai numerosi studi sul fenomeno basati sull’evidenza empirica. Ci si potrebbe chiedere, a riguardo, perché si continui a non prestare la dovuta attenzione a quanto quegli studi rilevano e ci si continui, invece, ad appellare, se non ad argomenti religiosi, a posizioni psicanalitiche in buona parte superate dalla stessa psicanalisi – disciplina il cui statuto di scientificità resta assai dubbio –, per sostenere che il buono sviluppo di un bambino richiede la presenza di un genitore femmina e di un genitore maschio. L’unica indagine empirica su larga scala che sembrava dimostrare che crescere in una famiglia omosessuale sia peggio che crescere in una famiglia eterosessuale si è rivelata una truffa finanziata da organizzazioni conservatrici e condotta violando gli standard accreditati dell’indagine scientifica.

Ma supponiamo che ci si voglia muovere con estrema cautela. Anche in quel caso, l’opposizione alla stepchild adoption, l’unica forma di adozione contemplata dal ddl attualmente in discussione al Senato, resta incomprensibile. La stepchild adoption, infatti, andrebbe a regolare realtà già esistenti, che vedono dei minori già di fatto inseriti in famiglie omosessuali, con l’obiettivo, prioritario, di tutelare i soggetti più deboli, i minori. Quell’istituto garantirebbe alla compagna della madre o al compagno del padre di un minore la possibilità di adottarlo, con il consenso di un giudice, dell’altro genitore, se presente, e dopo aver sentito il parere dello stesso minore, se la sua età lo consente. La stepchild adoption si limiterebbe a riconoscere formalmente il fatto che una persona già assolve alla funzione di genitore, attribuendole anche giuridicamente le relative responsabilità. Ciò al fine di proteggere la relazione esistente tra il minore e quello che è già, a tutti gli effetti tranne quelli giuridici, uno dei suoi genitori.

Non è chiaro perché il riconoscimento della stepchild adoption dovrebbe spianare la strada alla gestazione per altri, come qualcuno teme. L’introduzione della stepchild adoption non modificherebbe le norme vigenti in materia, la cui inefficacia (ampiamente rilevabile) prescinde interamente da una tale previsione legislativa e dovrebbe essere discussa come un problema distinto. Il fatto che alcuni dei minori che potrebbero beneficiare della stepchild adoption siano stati generati con il ricorso alla pratica della gestazione per altri non è un valido motivo per ritenere che gli interessi di quei minori non meritino di essere tutelati: certamente non si può pretendere che siano essi a pagare il costo dell’incapacità dei soggetti pubblici di impedire il ricorso a quella pratica (ossia: di impedire la nascita di quei bambini), comunque si giudichi quella incapacità. È difficile non vedere nell’insistenza con cui il tema della gestazione per altri viene evocato nel dibattito sulle unioni civili un tentativo di inquinare quel dibattito.