Il recente accordo sul nucleare iraniano ha fatto tornare di stretta attualità il ruolo dell’Iran nella politica del Medio Oriente. La tematica nucleare, comunque la si voglia leggere, è certamente importante, ma non esaurisce un più attento giudizio sull’influenza iraniana nella regione. Come valutare dunque la politica estera di Teheran nell’area mediorientale? Una risposta può arrivare facendo un’osservazione indiretta, ovvero guardando con spirito critico il suo vicino, l’Iraq.
1. L’Iran ha iniziato la penetrazione in Iraq negli anni della presenza delle truppe americane e la sua influenza è sicuramente aumentata dopo il ritiro di queste ultime. La situazione attuale del Paese resta molto difficile e, malgrado non tutti i problemi siano imputabili direttamente all’Iran, la sua influenza su aspetti chiave è comunque notevole.
La sicurezza interna irachena è quotidianamente scossa da attentati di varia natura (attacchi suicidi, dinamitardi, bombe IED, scontri a fuoco) e matrice (dai gruppi sunniti legati ad Al-Qaeda ai quelli di opposizione al governo di Maliki fino alla “semplice” criminalità organizzata). Dopo il ritiro americano, avvenuto ormai due anni fa, la situazione è costantemente peggiorata anche se non in modo lineare. I morti nel 2012 sono stati circa 4500, una cifra già ampiamente superata nel 2013, luglio è stato il mese più violento dal 2008 con circa 1050 vittime e novembre è stato solo di poco inferiore con circa 948 morti. I problemi iracheni sono inoltre testimoniati dal recente rapporto sulla corruzione nel mondo che pone l’Iraq tra gli ultimissimi posti appena sopra la penultima Libia e gli ultimi Afghanistan, Somalia e Corea del Nord.
Tale situazione non è una novità ed è figlia di almeno tre elementi convergenti. Il primo è la presenza sul territorio di gruppi collegati ad Al-Qaeda, il più noto dei quali è l’Islamic State of Iraq (ISI). Questi gruppi sono i più violenti (sono gli unici a impiegare la tattica dell’attacco suicida) e riescono così quasi sempre a ottenere l’attenzione dei media, ma ciò non significa che siano i più numerosi o i più radicati sul territorio. Al contrario, rappresentano una minoranza e spesso non sono particolarmente ben accetti dalla popolazione locale. Il secondo elemento è legato alla guerra civile tra sunniti e sciiti scoppiata nel 2006 (momento del tutto convenzionale visto che quel tipo di violenza era già presente nel Paese da un paio di anni) e le cui cause non sono mai state del tutto risolte. Il terzo elemento, strettamente connesso al precedente, è la politica di Baghdad e in particolare i suoi legami con l’Iran. Le tribù sunnite sin dal 2003 si sono sentite escluse dal nuovo Iraq, e questo è stato uno degli elementi che ha contribuito allo scoppio della guerra civile. Da allora si sono sempre opposti in svariati modi al governo centrale e hanno sempre spinto per un maggiore equilibrio. Nel dicembre scorso le tensioni sono poi sfociate in rivolte contro le incarcerazioni massicce con l’accusa di terrorismo di molti sunniti oppositori di Maliki. Le proteste si sono estese e sono continuate per diversi mesi saldandosi ai problemi cronici del Paese: disoccupazione, servizi basilari inesistenti, vita economica piatta. Inoltre, l’accusa rivolta a Maliki di essere un burattino di Teheran si sposa con altre che mettono in evidenza la sua gestione autoritaria del potere, che si esplica in un controllo molto stretto sui corpi speciali della polizia, che a sua volta è responsabile degli arresti mirati.
La vicinanza di Baghdad a Teheran è sicuramente uno degli elementi più importanti da prendere in considerazione. Proprio in riferimento al trattato sul nucleare iraniano bisogna ricordare che il 23 e 24 maggio 2012 a Baghdad si svolse un incontro tra l’Iran e il gruppo dei 5+1. Quella era stata un’occasione per Maliki di cercare di giocare un ruolo più importante nella politica del Medio Oriente, ma quell’incontro testimoniò anche la vicinanza tra i due paesi. Non è forse un caso che proprio in quella circostanza l’Iran sorprese tutti presentando un documento in cui da un lato mostrava una buona volontà verso la comunità internazionale (aprendo in particolare alle ispezioni dell’AIEA) e, dall’altro, chiedeva una riconsiderazione delle sanzioni economiche che flagellano il paese (entrambi questi aspetti sono presenti nel trattato appena firmato).
2. Gli stretti legami tra i due paesi sono stati inoltre suggellati mercoledì 4 dicembre dalla visita di Maliki a Teheran, la prima da quanto Hassan Rouhani è diventato presidente. La due giorni di incontri è servita per affrontare le relazioni bilaterali tra i due Paesi. Le relazioni economiche diventano ora importanti con la prospettiva di vedere le sanzioni affievolirsi, infatti i due paesi hanno firmato un contratto per l’esportazione di gas dall’Iran all’Iraq del valore di quasi 3 miliardi di euro. Inoltre, a fine mese si svolgeranno a Vienna le elezioni per il nuovo segretario generale dell’OPEC e Iraq e Iran stanno spingendo per i rispettivi candidati. Questo è un aspetto cruciale perché l’Iran si aspetta di aumentare le esportazioni legali di greggio per cui necessita di una persona di fiducia a capo dell’OPEC, al contempo però le esportazioni di greggio irachene sono cresciute di un terzo rispetto a quelle di settembre. Lo scopo della visita era certamente anche quello di rafforzare la posizione politica interna di Maliki in vista delle elezioni della primavera prossima e alla luce dei dissapori interni alla sua coalizione di governo, ma aveva anche altri due argomenti importanti. Iran e Iraq devono risolvere la questione del gruppo di opposizione iraniano presente sul territorio iracheno (People’s Mujahedeen Organisation of Iran, PMOI).
Il gruppo si opponeva prima allo scià e poi al governo teocratico e sin dagli anni ’60 aveva trovato rifugio in Iraq all’epoca governato dal governo del Baath. Ora però la situazione politica è mutata radicalmente e Baghdad sarebbe ben felice di disfarsi della presenza di questo gruppo, assecondando così anche i desideri di Teheran. Vi è poi la questione siriana perché se l’Iran ha sempre appoggiato, anche con il consenso più o meno esplicito di Baghdad, il governo di Assad, Maliki deve ora tener conto di forti proteste interne e dell’aumento del numero di attacchi strettamente correlato proprio con i gruppi attivi in Siria. Le dichiarazioni ufficiali di rito parlano di un intento comune nel cercare una soluzione pacifica nello sconfiggere il terrorismo, ma la realtà dei fatti è sicuramente diversa.
I legami tra i gruppi combattenti iracheni e quelli siriani è conclamata, anche perché il confine tra i due paesi sostanzialmente non esiste (nella primavera scorsa si erano anche registrati sconfinamenti da parte di irregolari siriani che hanno attaccato militari iracheni) il che complica pesantemente la stessa situazione della sicurezza interna. Ma anche a proposito della questione siriana si può vedere come la politica di Teheran si appoggi a Baghdad. Infatti, il territorio iracheno e il suo spazio aereo sono stati utilizzati nei mesi scorsi dall’Iran per portare armi al regime di Assad. Questo è un nodo della politica irachena, perché da un lato Assad è un alleato in quanto appoggiato dall’Iran, dall’altro lato però l’insorgenza siriana è pericolosamente vicina a quella irachena di stampo sunnita il che rende sempre più difficile qualunque tentativo di ricomposizione ed estremizza ancor di più le rispettive posizioni.
3. Non bisogna cadere però nell’errore di pensare che la violenza interna all’Iraq sia solo di stampo sunnita. Durante l’operazione Iraqi Freedom erano molto attivi anche i gruppi sciiti e in particolare quello di Moqtada al-Sadr dal quale nel 2006 si separò l’Asa’ib Ahl al-Haq (AAH), autore di svariati attacchi contro le truppe della Coalizione e contro iracheni coinvolti nella ricostruzione. Con il ritiro americano questo gruppo ha abbandonato la lotta armata, almeno quella più virulenta, per venir integrato nel governo di Maliki. Il problema con questo gruppo di radicali sciiti è duplice. Da un lato è apertamente appoggiato dall’Iran sin dal 2006 (Teheran ne addestrò i membri e li rifornì della tecnologia necessaria per impiegare nuovi esplosivi), dall’altro lato ha come obiettivi politici, tra gli altri, quello di facilitare la penetrazione iraniana in Iraq e di garantire la stabilità del potere sciita a Baghdad. AAH è dunque una sorta di Hezbollah iracheno, un attore inserito nel gioco politico locale e che si muove in base alla strategia e agli obiettivi di Teheran.
L’Iraq è un Paese profondamente instabile e problematico. Se è vero che non tutte le cause di questa situazione sono imputabili alla politica iraniana, è altrettanto evidente che la Repubblica islamica gioca nel teatro iracheno un ruolo importante: sia stabilizzante, appoggiando il governo sciita di Baghdad, sia destabilizzante, poiché proprio quell’appoggio è profondamente avverso ai sunniti locali. È dunque necessario prenderlo in esame, sia per capire l’Iraq, sia per valutare più compiutamente la politica estera di Teheran.
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