1. La crisi economica che preoccupa sempre di più le classi dirigenti ed i cittadini europei sta profondamente cambiando lo scenario politico di molti Paesi. Ai casi critici, come quello pericolosissimo dell’Ungheria dove le sirene dei limiti democratici hanno già suonato da tempo, si aggiungono, elezione dopo elezione, nuovi elementi che consentono di individuare un trend di crescita di partiti politici connotati da piattaforme a base populista.
Anche se gli studiosi non convergono su una unica e definitiva definizione del fenomeno, alcune recenti analisi possono offrire interessanti spunti di riflessione. Molti concordano nel definire con il termine “populismo” un fenomeno che si caratterizza per la percezione della politica come rappresentata dallo scontro tra gruppi omogenei e antagonisti: da una parte il popolo concepito come virtuoso e puro; dall’altra, l’élite corrotta, distante dal vivere quotidiano dei cittadini comuni e coloro che risultano estranei al popolo ovvero le minoranze soprattutto etniche o religiose. L’ovvia aspirazione dei movimenti populisti è la vittoria elettorale dove possa prevalere la “volontà del popolo” rispetto a quella dei due gruppi percepiti come estranei (uno studio recente con numerose analisi empiriche è quello pubblicato dalla Chatham House nel settembre 2011 a cura di Matthew Goodwin, Right Responses. Understanding and Countering Populist Extremism in Europe).
2. Un caso interessante per lo studio dei partiti che agiscono nell’orbita populista è dato dal contesto olandese. Una precisa analisi del fenomeno è offerta dal saggio Fortuyn versus Wilders: An Agency based approach to Radical Right Party Building, pubblicato di recente dalla rivista West European Politics a cura di Sarah De Lange e David Art (vol. 34, 6, 2011, pp. 1229-1249).
Come documentano i due studiosi, mentre in Europa i partiti della destra radicale conquistavano seggi già negli anni Ottanta e Novanta, l’Olanda non aveva conosciuto fenomeni simili a quelli degli altri Paesi continentali. È solo con la prima esperienza della Lijst Pim Fortuyn nel 2002 che qualcosa comincia a cambiare. Creata dal nulla e in sole tre settimane, la Lijst Pim Fortuyn riesce ad ottenere il 17% dei consensi e ben 26 seggi alle elezioni del maggio 2002 che si svolgono solo nove giorni l’assassinio del suo leader. Il governo di coalizione con i Christen Democratisch Appèl e il Volkspartij voor Vrijheid en Democratie (VVD) dura però soltanto 86 giorni. Il partito di Fortuyn, privo del suo leader e sguarnito di una qualsiasi organizzazione territoriale, perde drasticamente i consensi guadagnati alle elezioni precedenti, riuscendo ad ottenere solo otto seggi in Parlamento. Il declino continua anche alle elezioni successive ed il partito viene poi formalmente dissolto il primo gennaio 2008.
È proprio quando comincia il declino della Lijst Pim Fortuyn che Geert Wilders inizia a percorrere la sua strada. Nel 2004 lascia il partito nel quale militava (il VVD) e un anno dopo fonda il Partij voor de Vrijheid (PVV). Alle elezioni del 2006 riceve il 5,9% dei voti riuscendo a conquistare 9 seggi. Ma sono le elezioni europee del 2009 a lanciare pienamente Wilders: riesce infatti ad ottenere un fenomenale 17% che diverrà poi un 15,5% alle elezioni nazionali del 2010.
3. Che cosa cambia tra l’esperienza della Lijst Pim Fortuyn e quella del PVV di Wilders? Cosa permette all’esperienza di Wilders non solo di resistere, ma di porsi a modello di iniziativa analoghe in altri Paesi?
Sono innanzitutto le biografie dei due personaggi ad essere profondamente diverse.
Fortuyn arriva alla politica politicante da amatoriale, è un intellettuale che non ha dimestichezza con i tecnicismi della politica.
Wilders si aggira nei corridoi del palazzo da oltre venti anni. Era stato assistente di Frits Bolkenstein e Robin Linschoten, poi eletto al comune di Utrecht nel 1997. Eletto al parlamento nel 1998 e successivamente nel 2003. Conosce a menadito le procedure parlamentari, le reti di socializzazione informali che influenzano la politica nazionale. Può costruirsi un partito su misura, centralizzato che guida con piglio decisionista. Seleziona i primi militanti uno per uno, fa lo stesso con i candidati. Dedica il sabato alla formazione del personale politico. Tutto in prima persona. Il tempo consente dunque di accumulare un capitale sociale notevole e di istituzionalizzare fortemente il partito. Wilders non consente i tesseramenti, inizialmente rifiuta le donazioni ed i finanziamenti per evitare che il partito venga egemonizzato da esterni. Non costituisce sezioni locali o organizzazioni ausiliarie. La meticolosa organizzazione rende quindi il PVV un partito che non risponde solo ad una onda emotiva, ma ad una pianificata e meticolosa strategia politica. È questa la differenza principale che De Lange e Art rilevano nel loro interessante saggio: il partito di Wilders riesce a darsi una struttura organizzativa pienamente efficiente, altamente istituzionalizzata e visti i meccanismi decisionali capace di muoversi con agilità.
4. Non a caso dopo le campagne focalizzate sugli attacchi agli immigrati ed all’«islamo-fascismo» (si veda la recente pubblicazione: Geert Wilders, Market for Death: Islam’s War Against the West and Me, Regnery Publishing, 2012) l’azione politica di Wilders si sposta e si concentra rapidamente sulla crisi dell’euro (per una analisi completa si veda anche il saggio di Koen Vossen, Populism in the Netherlands after Fortuyn: Rita Verdonk and Geert Wilders Compared, Perspectives on European Politics and Society, vol. 11, 1, 2010, pp. 22-38). Il rifiuto di acconsentire alla manovra da 16 miliardi di tagli messa sul tavolo dal primo ministro Mark Rutte, che aveva l’obiettivo di riportare il disavanzo olandese sotto il 3% previsto dai Trattati europei, ha portato alla caduta del governo in carica. Piuttosto che acconsentire alle misure previste Wilders ha ritirato l’appoggio esterno al governo, provocando la crisi che porterà alle elezioni anticipate del settembre prossimo. L’obiettivo questa volta è l’uscita dall’euro e il ritorno al fiorino.
5. Oltre che nel contesto nazionale olandese il “paradigma Wilders” ha effetti anche negli altri Paesi. Al di là dei rapporti ormai consolidati con gli vari gruppi americani (in primis coloro che si sono opposti alla costruzione della moschea di Ground Zero a New York), può essere utile accennare a quale è stata la recezione di Wilders nel nostro Paese. Un dato interessante per comprendere il fenomeno è dato dall’interesse dedicatogli dalla stampa italiana e dalla politica nazionale.
Ad una ricerca effettuata sulla rassegna stampa della Camera dei Deputati per la parola “Wilders” risultano novantuno articoli a partire dal 2004 (la banca dati rintraccia gli articoli a partire dal 1998). Il primo articolo in ordine cronologico è una intervista rilasciata ad Andrea Morigi e pubblicata dal quotidiano Libero del 17 novembre 2004. Da un punto di vista culturale e politico è molto interessante l’intervento di Wilders alla Annual Lecture della Fondazione Magna Carta, presieduta dal Senatore Gaetano Quagliariello del Pdl, il 25 marzo 2001 dedicata alla crisi del multiculturalismo (http://www.loccidentale.it/node/103872).
Se Wilders da una parte si pone come castigatore dell’ «islamo-fascismo», dall’altra ha altrettanto esplicitamente supportato la legislazione a tutela dei diritti delle coppie omosessuali (lo ribadirà anche il giorno dopo la lecture in una intervista ad Angelo Mellone per Il Tempo) contro la quale proprio l’area di riferimento parlamentare vicina al senatore Quagliariello ha sempre impostato una veemente battaglia politica.
Solo un segnale dell’ennesima dissociazione, di allacciamenti arbitrari o forse opportunistici di una non-cultura politica al tramonto che ha provato a salire ripetute volte (almeno quando conveniva nel dibattito pubblico) sul taxi del liberalismo per poi rinnegarne puntualmente i principi e le norme.
Il “paradigma Wilders” è interessante perché formatta i dibattiti sull’immigrazione, sui diritti delle minoranze, sui rapporti fra Europa e Stati nazionali e influisce oltre i confini olandesi. Sarà bene osservarlo e studiarlo con rigore, evitando facili semplificazioni, provando a dare risposte concrete alle domande che pone. Comprendere per deliberare è necessario, oggi più che mai.
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