Perché non investire il tesoretto nelle infrastrutture? Nel forziere non c'è il frutto di alcuna temeraria scorribanda di un vascello pirata: i cinque miliardi sono il frutto della sorpresa con cui si è manifestata la ripresa economica. Insomma, uno dei soliti errori di stima in cui incorrono gli economisti pubblici, che da un lato devono prevedere spese certe per il funzionamento dello Stato, mentre dall'altra hanno un gettito congiunturale, ossia sensibile all'andamento della base economica. Se la congiuntura è peggiore delle previsioni, a luglio si fa la solita "manovrina". Se è migliore delle previsioni, allora si deve trovare destinazione a un piccolo tesoretto. Quello del 2007 potrebbe essere di 5 miliardi. Lo Stato italiano è però così indebitato che se lo usasse per restituire parte del suo debito, come avrebbe intenzione di fare Angela Merkel con l'analogo tesoretto germanico, in Italia il debito non si ridurrebbe che del 3 per mille. E' dunque possibile trovarvi una destinazione alternativa e di un qualche impatto? La nostra idea è che di questo e dei possibili futuri tesoretti lo Stato italiano dovrebbe fare una cosa sola: usarli per colmare il divario infrastrutturale con il resto d'Europa. Tav: troppi dubbi per un'infrastruttura di cui non si può fare a meno La situazione è così grave? Esiste un'emergenza infrastrutturale? Rispondetevi da soli. Basti pensare che il primo treno Tgv è stato consegnato in Francia il 25 aprile del 1980, ossia 27 anni fa. Oggi, la rete dei Tgv raggiunge e collega 100 stazioni e fa viaggiare milioni di francesi, che abitano città con più frequenti relazioni di scambio economico e culturale. In Italia, le prime tratte sono a tutti gli effetti in fase di consegna solo ora e, fino a che non sarà completata la Torino-Milano, le due città più rilevanti d'Italia per la produzione del Pil privato non saranno ancora connesse. Alla base della questione infrastrutturale sta un numero. La dotazione di capitale infrastrutturale è in Italia pari al 47 per cento del Pil, ossia 10 punti sotto la media dei paesi costituenti l'Europa dei quindici. Tutto bene, se il territorio italiano fosse iscrivibile in una circonferenza, senza mari né monti e con la popolazione residente in pochi addensamenti urbani. Invece no. L'Italia è uno stivale completamente bagnato dal mare, con un paio di grandi isole e più di una manciata di isolotti minori. Lo stivale è separato dal resto d'Europa dalle massime montagne del continente e, non paghi di ciò, ci siamo permessi gli Appennini e perfino le Madonie in Sicilia e il Gennangentu in Sardegna. L'urbanizzazione italiana è figlia dell'Italia dei Comuni: niente di male. La conseguenza è che i 56 milioni di abitanti sono più sparsi sul territorio di quelli di qualsiasi altro paese europeo, tanto che gli italiani hanno il record di chilometri percorsi annualmente con ogni mezzo e soprattutto in auto. Neonati e pensionati inclusi, ciascuno di noi sfiora annualmente i 13 mila chilometri percorsi in automobile, contro una media europea di circa 11 mila. In più, l'Italia non è certo il paese d'Europa più terziarizzato. Anzi, siamo uno dei principali paesi agricoli della vecchia Europa e siccome la trasformazione industriale mantiene ancora direttamente più di un terzo della forza lavoro, siamo origine e destinazione di flussi di merci rilevantissimi. Come se non bastasse, siccome le merci manifatturiere viaggiano dall'estremo oriente verso l'Europa in nave e siccome non tutti i paesi hanno porti, i nostri porti e i nostri sistemi di trasporto servono anche le merci degli altri o destinate agli altri Un paese così configurato dovrebbe avere almeno 10 punti di capitale infrastrutturale in più della media, invece siamo ben dieci punti sotto (e con oltre venti anni in ritardo). Le conseguenze? Sono di numerosi ordini: congestionamenti delle reti, incapacità di servire la domanda con una "qualità da terzo millennio" (che significa trasporti rapidi, sicuri e puliti), e soprattutto la perdita di occasioni per l'economia Chi infatti pensasse che le infrastrutture sono un "investimento pubblico" e basta - dunque "un costo e basta" - si sbaglierebbe di grosso. - le infrastrutture sono piattaforme di beni capitali sulle quali si montano servizi economici a valore aggiunto. Il che significa che risparmiando le infrastrutture si risparmiano solo i costi di investimento, ma si perdono tutti i flussi di valore che per trenta e più anni deriverebbero dall'utilizzo dell'infrastruttura;
- le infrastrutture sono manufatti la cui costruzione attiva l'economia reale attraverso gli acquisti di materiali e beni intermedi, l'acquisto di servizi, la retribuzione del lavoro e degli altri fattori. Le retribuzioni del lavoro in un giro successivo producono ulteriore attivazione del circuito economico, attraverso i consumi;
- le infrastrutture, in terzo, luogo, agiscono sulla produttività dell'economia. Si stima che per ogni punto percentuale di aumento del capitale infrastrutturale, l'economia cresca dello 0,2 per cento, a parità di utilizzo degli altri fattori.
Chi scrive ha provato a fare "quattro conti" in occasione di un recente convegno organizzato a Torino il 9 maggio dalle Confindustrie di Piemonte e Liguria. Il Nordovest d'Italia infatti è il luogo con il maggior gap infrastrutturale dello stivale. Le merci e i passeggeri che potrebbero originarsi, destinarsi o semplicemente transitare attraverso i due corridoi infrastrutturali (il corridoio ferroviario TEN24 tra Genova e Rotterdam ponte dei due mari e il corridoio 5 Lisbona-Lyon-Torino-Venezia-Kiev) da un lato servono a soddisfare l'aumento della domanda di trasporti di passeggeri e merci, presunto di circa il 230-300% di qui al 2030. Tali incrementi sarebbero insostenibili dalle reti attuali. Dall'altro lato, non si tratta solo di servire la domanda di traffici, ma di candidarsi a restare centrali nella competizione mondiale per le localizzazioni industriali e di servizi, anziché adattarsi a un inevitabile "atterraggio morbido", se i traffici dovessero prendere altre strade. L'Italia a un bivio: non investire 38 miliardi ci costerà mezzo milione di posti di lavoro Ecco i numeri. L'Italia vuole modernizzarsi? Vogliamo realizzare veramente e nei tempi utili le infrastrutture del Nordovest? Si tratta di investire di qui al 2020 circa 38 miliardi di euro, 28 dei quali riferibili alla Tav e alle opere connesse. Se queste infrastrutture si realizzassero, esse contribuirebbero a generare domanda economica pari a circa 1,6 volte la spesa, grazie ai moltiplicatori "nascosti" nei circuiti indiretti e indotti del reddito. In pratica, fare le infrastrutture, oltre a "costare" 38 miliardi renderebbe subito un servizio all'economia generale occupando circa 60 mila persone (tra occupati diretti, indiretti e indotti) all'anno, di qui al 2020. Nonostante le 60 mila persone occupate, l'impatto di domanda, ossia l'impatto del cantiere delle infrastrutture è inferiore alla crescita economica aggiuntiva determinata dalla capacità delle infrastrutture realizzate di attivare l'offerta di nuovi servizi e di migliorare la produttività del sistema. Una stima prudenziale dice che 300 mila nuovi posti di lavoro prima inesistenti potrebbero scaturire nel solo Nordovest, per effetto dell'adeguamento infrastrutturale. Se poi si decidesse di colmare in via definitiva il divario di 10 punti di Pil di dotazione infrastrutturale, si dovrebbero richiamare risorse aggiuntive annuali pari all'1,1 per cento del Pil e complessivamente pari a 27,8 miliardi di euro (sempre nel territorio del Nordovest). In questo caso, l'impatto di offerta equivarrebbe a una job creation di ulteriori 200 mila unità. Complessivamente, il Pil del Nordovest entro il 2020 si alzerebbe strutturalmente e permanentemente di 12 punti percentuali, facendo recuperare un po' del divario accumulato negli ultimi anni, caratterizzati dalla bassa crescita. Cosa sono cinque miliardi di maggiori entrate per il fisco? Nulla, se distribuiti a 20 milioni di famiglie. Meno ancora se corrisposti attraverso servizi non richiesti dalle famiglie. Quasi zero se confrontati con lo stock di debito pubblico da restituire. Eppure, il tesoretto varrebbe in un anno soltanto più o meno il finanziamento di un sesto del fabbisogno infrastrutturale del Nordovest d'Italia di qui al 2020. Perché non partire da qui? Se si risolvesse il nodo infrastrutturale del Nordovest italiano, l'intero stivale avrebbe un destino di maggiore prosperità e godrebbe di una sicura centralità nella geografia economica post-globalizzazione. Ecco perché varrebbe la pena fare una scelta semplice, chiara, di sicuro effetto ed impatto. Una scelta politica comporta sempre l'esercizio di una discrezionalità e comporta di rinunciare alle opportunità alternative, nonché di convincere alcuni a sopportare dei costi in forza di un vantaggio non immediato e ben più generale. Viceversa, distribuire una somma di denaro a una moltitudine è facile, non comporta di regola obiezioni e non è affatto come parrebbe un esercizio di democrazia, bensì piuttosto una sua magra caricatura. |