Poco più di un anno fa, il 10 ottobre del 2012, è mancato Enrico di Robilant, uno dei più originali pensatori liberali italiani della seconda metà del Novecento e oggi, sfortunatamente, poco ricordato. Questo, nonostante la grande influenza che il suo pensiero ha avuto (e continua ad avere) su almeno due generazioni di filosofi del diritto, di giuristi e di studiosi di scienze sociali che si sono formati sui suoi testi. Insegnò filosofia del diritto all’Università di Torino. Forse il motivo risiede nel fatto che Robilant rimase sempre distante sia dalle mode culturali, sia dai dibattiti spesso evanescenti della intelligentsia torinese e italiana. Questo breve articolo non vuole essere un «coccodrillo», o una vuota commemorazione dell’«intellettuale di turno» per soddisfare ragioni ideologiche o pseudo-pedagogiche, ma si propone di illustrare, attraverso figure che riducano la complessità delle cose, l’importanza e l’attualità di un filosofo forse archiviato troppo in fretta.

1. Questo «interramento» dell’opera e del pensiero di Enrico di Robilant è il risultato di una doppia dinamica. In primis, l’indirizzo politico liberale (e libertario) del filosofo, lo ha distanziato da gran parte degli intellettuali di opposta persuasione, i quali non hanno saputo (o non hanno voluto) individuare nella sua produzione, quegli aspetti di lucidità, universalità e astrazione, tali da risultare interessanti per chiunque desideri accostarsi alla filosofia del diritto e alla cultura delle discipline sociali. In secondo luogo, il consapevole «disinteresse» di Robilant rispetto alle tendenze della cultura italiana a lui contemporanea, ha generato uno di quegli ordini spontanei, ben delineati da Friedrich Hayek e particolarmente apprezzati, come costruzioni teoriche, dal filosofo torinese, di costante separazione tra quegli studiosi e intellettuali più inclini al conformismo culturale e la sua opera.

Robilant infatti, si mosse all’interno di quell’ambiente accademico isolato costituito dalla cultura giuridica, spesso anche percepito dall’esterno come oscuro e chiuso nel tecnicismo; stigma di cui soffre, in generale, la filosofia del diritto. Le incursioni del filosofo fuori da quel mondo poi, sono avvenute in un ambiente (quello della cultura libertaria), che in determinati anni rappresentava, anche per i più moderati, una sorta di demone da esorcizzare. Ciò ha determinato una cesura profonda tra il suo pensiero e le correnti che, per molti anni, hanno dominato in Italia.

Non bisogna però credere che i lavori di Robilant siano rimasti circoscritti alla torre d’avorio delle pubblicazioni «tecniche» o giuridiche, inconveniente che ha condotto nel dimenticatoio brillantissimi filosofi italiani, non solo legati al diritto o al pensiero politico (e bastino, per tutti, nomi come Marino Gentile o Enzo Melandri). Egli ha scritto e curato libri per editori giuridici (il torinese Giappichelli in primo luogo) e pubblicato per la Rivista internazionale di Filosofia del diritto, ma non si è fermato alla sola sfera «professionale». Robilant infatti, ha scritto per case editrici piuttosto in vista nel panorama intellettuale italiano, come Il Mulino, e anche dagli orientamenti politici più diversi, quali Longanesi e le Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti. Inoltre, fu membro e animatore del Cidas (il libertario Centro Italiano Documentazione Azione e Studi), e scrisse articoli in diverse lingue. Una nota significativa è costituita dal fatto che egli tradusse in italiano il giurista e storico Hermann Kantorowicz, le cui opere sono state oggi riprese anche da tanti pensatori postmoderni, che lo hanno annoverato tra i campioni della storia simbolica, dietrologica e «smascherante», al di là delle barriere ideologiche, insieme a personaggi agli antipodi (sia fra di loro, sia rispetto a Kantorowicz), come Michel Foucault e Carl Schmitt.

2. Ma perché la filosofia elaborata da Robilant risulta essere particolarmente attuale? La risposta a questa domanda sarà sostanzialmente tripartita e innanzitutto, bisogna cominciare col considerare il punto che costituisce, al contempo, il fondamento e l’esito estremo del suo percorso intellettuale.

In prima battuta, nonostante egli sia un filosofo del diritto, anche profondamente influenzato dalle metodologie specifiche della «scienza giuridica», nel suo pensiero, «il giuridico» rappresenta semplicemente uno dei tanti sistemi informativo-normativi che concorrono ad imprimere specifiche forme all’organizzazione sociale. In linea con il pensiero liberale e libertario di Adam Smith, di Hayek e del primo Robert Nozick, le organizzazioni umane e le istituzioni che da esse scaturiscono, sono, per Robilant, ordini spontanei che evolvono naturalmente, adattandosi alle esigenze contingenti in maniera finalistica, ma in definitiva impredicabile e impredicibile, perché spesso, un determinato scopo è raggiunto perseguendone altri. L’inafferrabilità della realtà sociale nella sua complessità è stata il cavallo di battaglia della teoria liberale nel Novecento, contro un marxismo metodologico persuaso della scientificità delle «leggi» economiche e delle dinamiche sociali ed è ciò che ha permesso a Robilant di poter considerare il diritto in modo completamente diverso rispetto a quanto proposto dalla filosofia giuridica (specie in Italia), fino almeno alla seconda metà del secolo.

Quello di Robilant e di molti liberali è un diritto demistificato e de-santificato, in competizione con altri sistemi nella possibilità di normare e informare le genesi sociali.

Forse tali acquisizioni andrebbero riconsiderate oggi, in un momento in cui è lo stesso pensiero liberale che si è progressivamente allontanato da queste basi, per ricostruirsi in vista di astrazioni ultronee, sia rispetto alla concretezza degli ordinamenti, sia alla evoluzione spontanea delle organizzazioni. Questo ha anche portato l’attuale liberalismo a valorizzare sempre di più una visione solamente tecnologica delle discipline sociali, dove per «tecnologia» si intende l’attenzione a mere questioni tecniche e di ragionamento procedurale, senza invece sforzarsi di concepire contesti scientifici e teoretici più ampi, che, invece, dovrebbero essere il terreno privilegiato per ricondurre i dilemmi a sfere più ampie, sia di ragionamento che di intervento. Si può affermare, con una piccola dose di provocazione, che è proprio il pensiero liberale che, oggi, si trova nella posizione di dover pianificare la realtà, per poter proporre possibili soluzioni. Basti osservare come uno dei problemi più sentiti da Robilant fosse quello degli eccessi di produzione legislativa, vale a dire, uno dei risultati più deleteri di questa concezione tecnologica in senso stretto, sganciata da un più esteso paradigma di riferimento. L’eccesso di disposizioni difatti, non solo si manifesta in testi confusi, i quali risentono di contraddizioni, ridondanze e lacune, ma soprattutto, tali testi sottopongono le più minute pieghe delle nostre vite ad un controllo giudiziale che risulta eccessivo e inutile. Una chiara testimonianza di questa pratica la si può individuare, nel nostro ordinamento, nella proliferazione di leggi complementari in ambito penalistico che, per di più, contravvengono alla necessaria comprensibilità che il principio di determinatezza prescrive per una delicatissima materia, come quella delle sanzioni penali. Nondimeno, anche in ambito europeo, il proliferare di disposizioni è evidente, sia in vaste aree come l’economia, sia nelle minutissime normazioni tecniche.

In secondo luogo, la filosofia di Robilant risulta illuminante per aver chiarito quali siano le dinamiche del sistema informativo-normativo costituito dal diritto, nel contesto della società tecnologica, anche nella sua declinazione «postmoderna», che, ai tempi dei primi scritti che egli dedicò a tali tematiche, era assai lontana dall’essere teorizzata.

Fin dal 1972, quando scrisse un saggio, pubblicato però l’anno successivo, per la Rivista internazionale di Filosofia del diritto, intitolato “Il diritto nella società industriale”, Robilant si dedicò a tale argomento, mirando a confutare direttamente la corrente dottrinaria del positivismo giuridico, allora imperante in diversi paesi di civil law (e soprattutto a Torino e in Italia). Va premesso che il positivismo, nell’ambito della filosofia giuridica, si preoccupa di fornire al diritto «posto da una autorità» (positivo appunto) una giustificazione teorica, attraverso il meccanismo gerarchico delle fonti e rimuovendo il problema della legittimità di esso, per esaltare la sola validità formale delle regole. Tralasciando i numerosi problemi filosofici e pratici di una tale concezione (che sedusse moltissimi pensatori italiani, a cominciare da Bobbio, che però ne smorzò diversi aspetti, da buon conoscitore della concretezza del «politico»), per il liberale Robilant, questa elaborazione formalistica di un diritto che si esaurisce nel solo contesto della dottrina dello Stato e in un rapporto di posizione-imposizione di regole da parte di un’autorità, è caratteristica di un mondo preindustriale, come l’antichità o il feudalesimo medievale. La complessità della società industriale (e postindustriale) necessita di una nozione di diritto meno ingessata e più dinamica. Se nel passato esso si poneva come una relazione face-to-face, ossia, precisamente di imposizione, in un contesto complesso invece, nel quale i sistemi informativo-normativi sono molteplici, il diritto, ponendosi nell’agone della regolazione con altri fenomeni quali il mercato, o i costanti ribaltamenti dei paradigmi scientifici, deve potersi considerare come sistema aperto. Ciò significa che dovrà porsi in continuo rapporto con gli altri sistemi e ripensarsi (e, se possibile, riprogettarsi) costantemente, tramite un meccanismo di feedback. È da queste teorie che emerge l’interesse profondo di Robilant per l’epistemologia elaborata allora nell’ambito della filosofia della scienza, specie negli Stati Uniti, oltre che per la teoria dei sistemi. Proprio a proposito di quest’ultima, la concezione del diritto quale sistema aperto, in dialogo con tutti i fenomeni storici e sociali, si pone in linea di continuità con il pensiero di Popper, del biologo teorico von Bertalanffy e del sociologo Walter Buckley, contro chi pensava al diritto e alle istituzioni come sistemi chiusi, come «giochi» che si esaurissero solamente al loro interno.

Proprio a partire da queste notazioni di Robilant è possibile interpretare tanti fenomeni che, oggi, costellano il mondo della produzione normativa. Sistemi aperti sono individuabili per esempio, nelle possibilità di collaborazione e di governance a livello sovranazionale, o ancora nei cosiddetti strumenti soft. Si pensi alla soft law dell’Unione europea, con la quale è stata in gran parte gestita la crisi economica dalla Commissione e che può costituire un mezzo assai più insidioso dei meccanismi di hard law, in quanto crea obbligazioni agli stati membri, basate soltanto sul legittimo affidamento da parte della istituzioni: una dinamica che il positivismo giuridico non riterrebbe degna di sussistere nell’ambito pubblicistico. Ancora più latamente, si potrebbe pensare al soft power tratteggiato dal politologo americano Joseph Nye, quale principale caratteristica dell’influenza statunitense nel mondo globalizzato; essa è infatti basata, in gran parte, sull’esportazione di un modello culturale e non sull’esercizio diretto di un potere di natura coercitiva. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

In terza battuta, il pensiero di Robilant si caratterizza per essere uno dei primi in Italia (fin dalla pubblicazione del libro Modelli nella filosofia del diritto per Il Mulino, nel 1968), a concepire il diritto, o meglio la giuridicità, come uno strumento di conoscenza, oltre che come un oggetto di studio. In un momento in cui, nel contesto italiano, pensatori come Giorgio Agamben o Massimo Cacciari hanno edificato numerose teorie sulla base di costrutti di origine giuridica (e non sempre col rigore che sarebbe necessario), risulta assai utile vedere quali furono le proposte di un filosofo come Robilant. Va comunque detto che, su questo specifico terreno, alcuni allievi del filosofo torinese hanno saputo sviluppare diversi suggerimenti: a proposito, si può rimandare agli scritti del filosofo del diritto Paolo Heritier e a quelli del penalista Giorgio Licci.

A questo punto, si rende necessario esplicitare alcune costanti che reggono il pensiero di Robilant: la filosofia come metascienza, la necessaria riduzione della realtà in figure e l’inafferrabilità del reale, non solo dalla prospettiva delle scienze sociali. Questi modelli della costruzione intellettuale di Robilant sono derivati dalla epistemologia di Karl Popper ed in particolare dal Popper più aperto alla speculazione dei tre Poscritti alla Logica della scoperta scientifica, nei quali il filosofo austro-britannico si misurava con i problemi del ragionamento induttivo e con l’indeterminazione della fisica dei quanta. Senza complicare eccessivamente il panorama delle filiazioni filosofiche, ciò pone innanzitutto il problema di stabilire quale sia lo statuto del ragionamento scientifico, anche in ambito sociale e istituzionale, quindi del ragionamento giuridico. A tal proposito è necessario poter elaborare una meta-scienza, ossia una scienza che sia in grado di sottoporre ad esame critico il ragionamento scientifico: una scienza sulla scienza. Il vocabolo «scienza» va qui inteso come una traduzione del termine tedesco Wissenschaft, che indica qualunque argomento serio e rigoroso, piuttosto che nel significato generalmente assegnato in italiano (o in inglese), che richiama evidenze empiriche o sperimentali. Ciò che rende possibile questo controllo critico sul pensiero sono appunto le figure di realtà, che funzionano come modelli atti a semplificare la complessità. Non si avrà mai, infatti, una conoscenza onnicomprensiva di ciò che ci circonda, ma solo di ciò che ci permette la nostra biologia, la nostra cultura, il nostro pensiero e i nostri strumenti tecnici: come afferma Hilary Putnam, l’uomo non potrà mai osservare il modo dal punto di vista di Dio. Sono le figure di realtà che ci permettono di sindacare ciò che ci circonda, ponendoci in rapporto col Mondo. Sarà tramite un rapporto continuo di feedback che perverremo a figure sempre più raffinate e vicine a ciò che osserviamo.

3. Robilant considera quindi le teorie non come specchi della natura, per usare le parole di Richard Rorty, ma piuttosto come rappresentazioni della stessa, filtrate da una cultura: è il medesimo discorso di Popper della theory ladenness, della osservazione impregnata di teoria. Il filosofo e lo scienziato, ma anche il giurista (quando deve interpretare una disposizione per arrivare alla norma), si comportano all’incirca come un artista nell’atto di isolare un determinato elemento e fornirne una propria versione. Come è stato ben messo in luce dagli allievi di Robilant, ciò permette di usare le figure elaborate dal diritto, al fine analizzare specifici spaccati di realtà antropologica, storica o istituzionale, in quanto esse funzionano proprio come strumenti che, attraverso la loro applicazione per regolare le formazioni sociali, ci rendono possibile illuminarne le dinamiche.

L’opera di Robilant merita quindi di essere riscoperta da quanti vogliano comprendere la cultura del diritto al di fuori delle gabbie della dottrina dello Stato e delle mere disposizioni «di legge». Tuttavia, essa ci rende più consapevoli della genesi dei fenomeni sociali ed è monito costante a non considerare le proprie personali figure come pilastri immutabili. Il pensiero del filosofo torinese, da questo punto di vista, funziona come un rimedio efficace contro ogni rigidità e ogni paternalismo, siano essi religiosi, giuridici o politici. Dopotutto, la nostra prospettiva è limitata; l’uomo non dovrà mai essere Dio per l’altro uomo.