“Perché insegniamo ai nostri figli a fare come noi, quando sappiamo di non essere felici?”. Se lo chiede Mario, l’autotrasportatore protagonista del racconto di Andrés Neuman Parlare da soli (Ponte alle Grazie), durante l’ultimo viaggio che fa con suo figlio. Un uomo malato, che si porta dietro il bambino, sapendo che non è molto il tempo che gli resta. Una considerazione tra sé e sé, sospesa tra le generazioni, pensando al padre e al padre di suo padre: “è stato lui, il nonno, che ha cominciato con i camion”. Gli hanno trasmesso un mestiere, ma non gli hanno spiegato perché lo avevano scelto. La verità è che non lo sapevano neppure loro.
1. Se non tutti, almeno qualcuno dei dodicimila trentenni che hanno lasciato il Veneto nel 2012 deve avere avuto nella mente pensieri simili a quelli del personaggio di Neuman. Il dato, che fotografa un fenomeno ormai macroscopico, è stato pubblicato in questi giorni dal Corriere del Veneto. Registrando qualche sorpresa non da poco.
Il numero dei cittadini del Nordest che sceglie l’emigrazione è consistente, alto, in linea con un trend quasi ventennale. Ma a partire, soprattutto, è una fascia di cittadini intorno ai trent’anni di età, che non ha particolari problemi economici e solitamente ha già un lavoro mediamente retribuito. Non è un’emigrazione bohémienne, insomma, non è un Erasmus. Non è nemmeno, come si potrebbe pensare di questi tempi, una fuga di disperazione in cerca di un lavoro. È una scelta consapevole, generazionale, che va oltre il mero dato economico. E allora, perché se ne vanno, questi veneti?
2. Parliamo qui di Veneto per parlare d’Italia: se queste dinamiche avvengono in una delle aree più ricche del paese, avanguardia sociologica ed economica dovuta a un boom tardivo, ci si può aspettare che anche in altre aree della penisola stia accadendo o accadrà lo stesso. Il Nordest come l’Italia, terra di emigrazione. Fin qui nessuna nuova: un’intensa letteratura è stata prodotta sul tema dei veneti che partono: ai primi del Novecento per l’America; trenta o quarant’anni dopo per fare le cameriere a Roma o Milano; negli anni cinquanta e sessanta alla volta del Sudafrica o dell’Argentina come piccoli imprenditori. E, negli ultimi anni, veneti che spostano una famiglia in Germania per aprire una gelateria e inaugurano una esistenza ibrida, un po’ italiana (metà dell’anno) e un po’ tedesca; veneti che delocalizzano le proprie aziende nell’Est europeo, in Romania o in Bulgaria, intrecciando talvolta qualche relazione sentimentale a cavallo fra i due paesi; giovanissimi veneti, infine, che partono alla volta della Francia o della Spagna o della Gran Bretagna per provare un’esperienza di lavoro in un ristorante, in un ufficio, in una famiglia come ragazza alla pari.
Niente di nuovo, come si diceva. Ma a queste categorie storiche e sociologiche se ne aggiunge ora una di stretta attualità.
Tornando allo studio pubblicato dal Corriere del Veneto, uno sguardo al dato scomposto su base provinciale può aiutare a capire qualcosa di più. Partono innanzitutto trevigiani e vicentini, più dei veneziani, dei veronesi, dei rodigini. Interessante, perché trevigiani e vicentini sono quei popoli disposti lungo la cintura pedemontana che nel Veneto è corrisposta grosso modo al boom leghista degli ultimi trent’anni. Un modello micro-industriale di gente che si era fatta da sola, un paradigma che metteva l’accento su produzione, accumulazione di schèi, legame con il territorio, impresa familiare. Ma che portava in sé anche una pesante, ambigua ipoteca: molti di quei piccoli e grandi paroni volevano fortissimamente che i figli facessero il loro stesso mestiere, ma non erano – non sono – psicologicamente disponibili a lasciare, a mollare la presa. Per una forma di gelosia e di sfiducia che diventa suo malgrado ottusità, per un’ossessione di controllo, sono aggrappati a quanto hanno creato e temono, perdendo la propria creazione, di perdere anche sé stessi.
Si produce una frattura. Più profonda che evidente, essa mostra oggi i suoi frutti: una nuova, possente ondata di partenze. Nei luoghi del Veneto tradizionale e conservatore, che chiedeva meno Stato e più locale, che non si sarebbe mai sognato di lasciare la propria terra, dove metteva su famiglia, figli e lavoro, sorge un nuovo paese inquieto e irrequieto, non ancora cosmopolita ma di fatto già delocalizzato, nel senso che è già altrove. Disponibile, per scelta o per necessità, a spezzare la catena generazionale della professione tramandata, per sceglierne un’altra, nuova. Partono, i figli e i nipoti, per cercare un ambiente più aperto, dove il controllo sociale non esiste, per cambiare, per sperimentare. Non solo per lavorare: per vivere, che è cosa ben diversa. Ribaltando la domanda iniziale, qualcuno deve essersi detto: “perché imparare dai padri a fare come loro, se sappiamo che non sono felici?”.
3. Questa trasformazione antropologica coinvolge anche i tanti che restano. Romolo Bugaro, che con Marco Franzoso ha scritto qualche anno fa Ragazze del Nordest (Marsilio), ha composto una galleria di ritratti di giovani donne per spiegare non solo la violenza e la disparità che spesso purtroppo sono connaturate a una certa famiglia archetipica veneta, ma soprattutto le infinite sfumature di inquietudine e di aspettative tradite che ci sono in queste ragazze così lontane già dalle proprie madri, insoddisfatte in un sistema che assomiglia sempre più a una gabbia, ma anche drammaticamente incerte su quale direzione prendere.
Come Woody Allen in un celeberrimo film, i trentenni che partono rispondono “basta che funzioni” a chi gli chiede che cosa si aspettano di trovare all'estero. Il quadro è in movimento. Ma già il fatto che questa “frontiera” del ventunesimo secolo sia aperta - e che essa si allontani dal semplice mito dell’arricchimento che il Veneto e l’Italia hanno inseguito in questi decenni - è una notizia.
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