1. In quasi tutte le ipotesi di riforma del mercato del lavoro che mirano a rendere più facile il licenziamento per ragioni economiche, alla diminuzione delle garanzie per il lavoratore corrisponde l'introduzione di un sistema efficace di riqualificazione professionale.

La logica, fatta propria anche dalla Commissione Europea nel suo Libro Verde del 2006 (Adattare il diritto del lavoro per garantire a tutti flessibilità e sicurezza), è che sia illusorio e controproducente tutelare posti di lavoro ormai non più rispondenti a esigenze produttive dell’azienda. Ciò conduce per un verso a sprecare moltissime risorse in un accanimento terapeutico su aziende decotte, come accade oggi con il meccanismo della cassa integrazione (che peraltro si presta a non pochi abusi da parte delle imprese), e per l'altro verso a non prendere sul serio la formazione professionale, tanto che spesso si ha la sensazione che venga fatta “perché la si deve fare” e senza un'idea chiara di quali obiettivi si vogliano raggiungere.

In un'ottica che voglia comunque mantenere garanzie forti per il lavoratore, pare invece decisamente preferibile tutelare, in luogo del posto di lavoro, la persona del lavoratore, e questo in due modi: da un lato, con ammortizzatori sociali che ne prevengano la caduta nella povertà; dall'altro, incoraggiandolo ad intraprendere un percorso formativo mirato e ben studiato, che lo conduca ad una nuova occupazione.

2. La riforma recentemente presentata dal Governo al Parlamento con il discusso disegno di legge Fornero si occupa soltanto del primo aspetto, ovvero del ripensamento del sistema di ammortizzatori sociali (peraltro con margini di miglioramento, secondo Pietro Ichino e Boeri-Garibaldi) ma non tocca la formazione professionale. Vi è una precisa ragione costituzionale per questo, ovvero che l'articolo 117, comma 3 della Costituzione, nel testo in vigore dal 2001, esclude espressamente la formazione professionale dalle materie di competenza legislativa statale (esclusiva o concorrente con le Regioni), affidandola quindi alla competenza dei legislatori regionali.

Sono quindi le Regioni a doversi occupare di formazione professionale. Esse hanno poi in genere delegato alle Province lo svolgimento di questa funzione, per cui il panorama è molto variegato. Con le dovute eccezioni, comunque, sembra come detto prevalere un sistema-formazione abbastanza insoddisfacente, dove a dettare la linea di quali corsi tenere è in un modo o nell'altro la politica. Nelle ipotesi peggiori, quest’ultima giunge fino ad affidare i soldi a disposizione (e sono tanti, spesso di provenienza europea) ad amici e conoscenti, con grande danno del contribuente e del lavoratore in cerca di nuova occupazione (le cronache sono piene di scandali e la situazione è stata denunciata anche dal sindaco di Firenze Renzi in una recente intervista a La Stampa).

Proviamo a immaginare, allora, come potrebbe essere un sistema di formazione professionale soddisfacente e, soprattutto, di ispirazione per quanto possibile liberale.

Ad esempio in Danimarca, patria della celebre flexicurity, la formazione sembra funzionare bene, ma vede un ruolo molto penetrante giocato dai consulenti dei centri per l’impiego statali, che orientano il lavoratore nella scelta dei programmi di formazione tra quelli offerti, e predispongono un approfondito piano individuale che il lavoratore dovrà seguire, i cui costi verranno sostenuti in condivisione da fondi pubblici e dalle imprese.

3. La forte individualizzazione del percorso formativo, che è una delle principali mancanze in Italia, è certamente molto importante nell'assicurarne l'efficacia. Inoltre è previsto un coinvolgimento diretto delle imprese che aiuta a conoscere la domanda di lavoro e a investire su una formazione mirata in grado di intercettarla. Ma il ruolo centrale dei centri per l'impiego sembra comunque ostacolare la concorrenza tra programmi di formazione diversi, o meglio affida al burocrate un ruolo cruciale nella loro selezione. E, com'è noto, la valutazione del burocrate è esposta a errori, nonché alle pressioni di chi dalla sua scelta in un senso o in un altro potrebbe guadagnare.

Se la prima considerazione è universale, la seconda acquista particolare rilevanza per il nostro Paese. Sembra quindi opportuno immaginare alcuni correttivi.

In effetti, molte esperienze delle Province italiane sembrano avere il medesimo punto debole. Di per sé, l'impianto contiene degli elementi apprezzabili in ottica “liberale”: in particolare, ci riferiamo al sistema del buono-formazione, diffuso un po' dappertutto. Esso consiste nell'attribuire al lavoratore dei voucher, il cui costo è tendenzialmente sopportato dalle casse pubbliche, che questi può impiegare per pagare i corsi di formazione che sceglie.

4. L'idea del voucher è buona perché, esattamente come con l'istruzione e la sanità, anche nel campo della formazione professionale una linea politica pro-welfare che voglia mantenere un sistema di accesso universale può trarre grande beneficio dall'introduzione di elementi di concorrenza.

Una cosa, infatti, è - per garantirne l'accesso a tutti - gestire una scuola, un ospedale o i corsi di formazione professionale in modo diretto, nominando tutte le persone che andranno a occupare le caselle di comando, nonché stabilendo dall'alto i programmi, i contenuti e le modalità concrete di erogazione della prestazione.

Tutt'altra cosa è lasciare che questi servizi vengano erogati in concorrenza, con tutti i benefici che essa porta con sé in termini di aumento della qualità e/o diminuzione dei costi e semplicemente pagare il costo di simili prestazioni, per finalità di carattere sociale, a chi non se le può permettere. In entrambi i modi si prendono molto sul serio i diritti sociali coinvolti: ma l'opzione concorrenziale sembra offrire molti più vantaggi, tra cui anche quello decisivo di sottrarre ambiti così importanti alla sfera di influenza della politica.

5. Il problema della formazione all'italiana (prendiamo ad esempio l'ultima tornata di assegnazione voucher della Provincia di Torino) è che lascia in mano alla pubblica amministrazione, anziché al lavoratore, due aspetti chiave. Da un lato, il lavoratore può scegliere solo uno dei corsi preventivamente approvati dalla Provincia e inseriti nell'apposito Catalogo dell'Offerta Formativa. Dall'altro, è previsto espressamente che “la richiesta di assegnazione voucher a favore dei lavoratori inoccupati/disoccupati può avvenire esclusivamente da parte del competente Centro per l’Impiego” e non ad opera del lavoratore interessato.

Il problema, però, ancora una volta, è che i valutatori della Provincia - facendo le fortune di chi viene inserito - dovranno essere integerrimi per resistere alle eventuali pressioni di chi spinge per entrare nel Catalogo, e già di per sé questo non lo rende un buon sistema. Ma in ogni caso, anche con i funzionari più incorruttibili, chi garantisce che siano azzeccate le loro valutazioni su quali criteri predeterminare per l'inclusione o meno nel Catalogo?

6. Sarebbe invece auspicabile eliminare i Cataloghi e affidare al senso di responsabilità dei singoli lavoratori la scelta del percorso formativo da seguire, senza passare necessariamente per i Centri per l'impiego.

Un sistema siffatto, se pur bisognoso di un certo approfondimento per mettere a fuoco possibili inconvenienti e opportunità di abuso, si gioverebbe della formidabile capacità del mercato di segnalare, tramite domanda, offerta, e prezzi, quanto i singoli corsi siano effettivamente nel favorire il reimpiego. Non sarebbe altro che la concorrenza, hayekianamente intesa come processo di scoperta, che condurrebbe progressivamente, per tentativi ed errori, a un sistema di formazione via via più efficiente ed efficace nel ridurre al minimo i periodi di disoccupazione tra un impiego e l'altro.

Il monopolio statale, del resto, ha prodotto storicamente un sacco di guai. Perché la formazione professionale dovrebbe fare eccezione?