“Esiste un liberalismo triste, malinconico, proprio perché lucidamente consapevole dell’ineluttabilità di dover fare i conti con la ‘muta roccia’ della realtà politica”. In appena 150 pagine, dense di filosofia politica e ricchissime di citazioni e note, Carlo Gambescia offre uno dei contributi più completi, importanti e originali degli ultimi anni alla riflessione sul pensiero liberale.
1. “Liberalismo triste – Un percorso da Burke a Berlin” (Edizioni Il Foglio) è un saggio di notevole valore, innanzitutto sotto l’aspetto antologico – ma non solo. L’autore avverte nella prefazione, forse per falsa modestia, di non voler scrivere un’enciclopedia esaustiva sull’argomento, ma in realtà egli passa in rassegna, sia pure in rapsodica sintesi, quattro secoli di pensiero politico.
Del liberalismo, inteso come un insieme di dottrina, teoria e pratica politica, Gambescia esamina con attenzione l’anatomia, sottolineando la grande confusione che, a destra come a sinistra, pervade tanta parte degli intellettuali in campo. Se “all’estensione dell’uso del termine è corrisposta una dissipazione del significato”, come avvertono Ocone e Urbinati, tuttavia “non esistono forme pure di liberalismo (poiché) i fatti non sono liberali né antiliberali”. Dunque attardarsi a definire chi sia il vero liberale è un esercizio del tutto inutile.
Il principale nemico del liberalismo rimane lo “gnosticismo rivoluzionario” (la definizione è di Luciano Pellicani) un filone ispiratore di movimenti come il progressismo, il positivismo, il marxismo, la psicanalisi, il comunismo, il fascismo, il nazionalsocialismo, tutti basati sulla convinzione che sia possibile eliminare il male dal mondo estirpandolo dall’essere umano, grazie appunto alla conoscenza – gnosi – del metodo giusto per cambiare il corso della storia. Se serve, anche attraverso un catartico bagno di sangue. Dietro l’attacco al capitalismo e al liberalismo si nasconde la critica radicale alla modernità, uno “sconcertante odio puro per il presente” che accomuna reazionari, tradizionalisti e rivoluzionari. A volte sono gli stessi liberali a piegarsi al pessimismo cosmico delle correnti antiliberali, come accade a Guido De Ruggiero, ai liberalsocialisti italiani, all’enfasi eccessiva posta sulle questioni redistributive da Keynes e Rawls.
Invece la critica di Carl Schmitt – un non liberale – coglie nel segno, afferma Gambescia, quando imputa al liberalismo di non avere una teoria positiva dello Stato e della politica e sostiene che “non vi è una politica liberale in sé, ma solo e sempre una critica liberale della politica”. Si tratta di un “liberalismo bloccato” che lascia l’individuo a se stesso. Ma Burke, Croce, Meinecke e Berlin – fra gli altri – hanno saputo rispondere a questa accusa proponendo un liberalismo concreto, realistico e politicamente efficace.
Gambescia fa proprie le tesi politiche di Julien Freund, originalissimo autore di L’essence du politique (1965) considerato all’altezza dei più grandi classici del pensiero politico. Freund distingue fra “la politica” come arte di governare e “il politico” come sostanza perenne del potere, frutto di forze insopprimibili insite nella vita umana stessa, quelle “regolarità” o “costanti” che si ripresentano in qualsiasi società e in qualsiasi epoca. “Noi uomini siamo pellegrini del potere: sempre in cammino, affamati al tempo stesso di potere e di libertà, in cammino anche quando sembriamo fermi. E’ del tutto ovvio che una posizione esistenziale e teorica, così realistica e forte, né di destra né di sinistra, né conservatrice né progressista ma aperta alle tempeste, sempre imperfette, della storia e dei fatti, come quella di Freund, non abbia raccolto consensi fra illuministi, marxisti, cattolici progressisti e persino liberali: tutti convinti, a differenza di Freund, di poter studiare e sfidare la ‘muta roccia’ della politica, sulla base di categorie fortemente imbevute di pregiudizi morali e ideologici”.
Con un taglio interpretativo che tenta di andare oltre le tradizionali divisioni nominalistiche, Gambescia individua schematicamente quattro tipi di liberalismo.
a. Un liberalismo “micro-archico”, quello dello Stato minimo, di tipo giuridico-economico, che partendo da Hume e Smith ha i suoi esponenti di rilievo in Mises, Hayek, fino alla scuola di Chicago di Milton Friedman. Una corrente “che ama poco le tasse e lo Stato, ma non fino al punto di abolirli”.
b. Un liberalismo “anarchico”, rappresentato da Rothbard e dai libertarians americani. Bruno Leoni si colloca al confine fra queste due categorie.
c. Un liberalismo “macro-archico” che teorizza la redistribuzione della ricchezza attraverso l’imposizione fiscale. Questa corrente nasce con Bentham, si sviluppa con Mill e trionfa con Keynes e il New Deal americano. I limiti dello Stato non essendo definiti, essa finisce per allargarne a dismisura la presenza, dapprima nell’economia poi in tutta la società. Fino ad avere punti di contatto con la socialdemocrazia e con le varie derivazioni di sinistra: liberalismo sociale, liberalsocialismo, socialismo liberale. Se non che “il potere finisce sempre per vendicarsi” e il fiscalismo genera, per eterogenesi dei fini, sempre più voraci e ingestibili burocrazie pubbliche. Se ne è accorto persino Ralf Dahrendorf, il più importante esponente del liberalismo macro-archico.
d. Vi è infine il liberalismo “archico”, cioè consapevole delle durezze del potere, sostenuto da Freund e dallo stesso Gambescia, al quale l’autore dedica gli ultimi due capitoli, la parte più propriamente filosofica del saggio.
Se in particolare il liberalismo di Hayek è dottrinario, spoliticizzato, soddisfatto, un “liberalismo ridens” che trova in Francis Fukuyama il più tipico esponente, Gambescia gli contrappone un liberalismo “triste”, cioè disincantato, imperfetto, “rassegnato alla corruzione e alla caducità delle opere umane”, consapevole che alle leggi della politica non si può sfuggire: occorre prendere atto dell’esistenza ineluttabile del “potere nudo” dell’uomo sull’uomo.
Il liberalismo archico vede nel suo pantheon ideale i nomi di Hobbes, Burke, Toqueville, e naturalmente i grandi scienziati della politica quali Mosca, Pareto, Weber, e poi ancora Croce, Ortega y Gasset, Roepke fino a Raymond Aron e Isaiah Berlin: tutti liberali uniti da un forte realismo politico. L’esattore, il poliziotto, il soldato sono lì davanti a noi, come il corso delle stagioni. Attraversano guerre, rivoluzioni, cambiamenti. Il potere politico tende sempre a ricostituirsi, ne consegue la sua ineliminabilità.
“La tristezza del liberale archico è degna delle anime grandi e forti. Si tratta di una calma mestizia, inseparabile da un forte desiderio di ordine (…) Una tristezza che, in ultima istanza, sorge dalla disincantata riflessione sui limiti della libertà umana. (…) Ci siamo weberianamente limitati a tracciare le linee di un liberalismo possibile, a fronte di altri liberalismi, per dirla elegantemente, più problematici, perché dottrinari” è la chiosa laica e razionale di Carlo Gambescia.
Tutto è apprezzabile, in questo bel saggio, tranne l’aggettivo prescelto, che al primo impatto certo non aiuta. Se a fondamento del suo liberalismo l’autore pone il realismo politico… beh, questo è sintomatico di intelligenza e razionalità, virtù che dovrebbero suscitare legittimo orgoglio, giammai tristezza. Una malinconia invincibile semmai assale i liberali, quando assistono al dilagare via Internet della teorie più astruse e cervellotiche contro la società aperta. Ma questa è un’altra storia.
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