1. Nel 2012 la Cassazione ha scritto la parola fine in un processo iniziato nel 2006 che aveva visto un blogger condannato per stampa clandestina. Ribaltando la condanna di primo e secondo grado, la Cassazione ha finalmente stabilito che i blog su internet non sono equiparabili alle pubblicazioni a stampa e quindi non sono tenuti a registrarsi presso il tribunale come queste ultime.
2. La sentenza rafforza un orientamento favorevole alla libertà di stampa riscontrato in diverse pronunce giurisprudenziali recenti. Ad esempio, con la sentenza n. 1907 del 2010, sempre la Cassazione penale ha stabilito che il direttore di un giornale on line non è soggetto agli stessi obblighi di vigilanza e controllo che l'art. 57 del codice penale pone a carico del direttore di una pubblicazione a stampa perché, risalendo al 1958, la norma non può essere interpretata come fonte di disciplina di un fenomeno che ai tempi il legislatore non poteva neppure prevedere. Pertanto, se un giornale pubblica una lettera diffamatoria, il direttore potrà rispondere di diffamazione solo se d'accordo con l'autore della lettera, ma i suoi obblighi di controllo non sono equiparabili a quelli dei giornali cartacei.
Lo stesso principio era stato applicato sempre nel 2010 dalla Corte d'appello di Torino, che aveva anch'essa stabilito che un blogger non risponde degli scritti anonimi pubblicati sul suo blog, proprio perché la sua posizione non è, allo stato attuale della normativa, equiparabile a quella di un direttore di giornale.
Più recentemente, con l'ordinanza n. 337 del 2011, la Corte Costituzionale ha rifiutato di estendere al proprietario e all'editore di un sito internet la responsabilità civile che grava su proprietari ed editori di pubblicazioni su carta stampata.
3. Queste pronunce rappresentano lo sforzo di evitare di supplire al vuoto normativo con discutibili creazioni giuridiche, perché non terrebbero conto delle differenze tra il giornalismo della carta stampata e quello di internet. La tutela dell'onore è un bene certamente molto prezioso, da non sottovalutare e internet può in effetti rendere molto più facile agli autori di pubblicazioni diffamatorie nascondere la mano dopo aver gettato un sasso. Tuttavia, se si ritiene che questo problema richieda un complessivo aggiornamento del nostro impianto normativo, è un compito che tocca al legislatore. E finché ciò non accade, i giudici fanno bene ad astenersi dal compierlo loro.
4. Ma, per ora, il legislatore si è solo occupato della riforma dei contributi all'editoria. Con un recente decreto-legge e un disegno di legge, il Governo ha però dimostrato di essere prigioniero delle logiche del passato. Già nella conferenza di fine anno, rispondendo ad una domanda di un giornalista del Manifesto, Monti aveva assicurato che i contributi alla stampa sarebbero stati mantenuti, ma si sarebbe cercato di introdurre criteri “obiettivi” per stabilire chi li merita e chi no. “Sarebbe impensabile eliminare completamente contributi che sono il lievito di quella informazione pluralistica e di quella coesistenza di correnti culturali e politiche che sono vitali per un Paese”: così aveva detto il Premier. In linea con questa logica, la riforma di cui al decreto legge appena ricordato si è ben guardata dal cancellare i contributi pubblici, piuttosto “rimodulandoli”, addirittura prevedendone di nuovi per l'editoria digitale.
Siamo sicuri che il “dogma” enunciato dal presidente del Consiglio non possa essere messo in discussione? E che occorra necessariamente il contributo pubblico per garantire il pluralismo e la circolazione delle idee? La miriade di iniziative editoriali on line di ogni orientamento, dai quotidiani interamente on line, ai blog, alle riviste come la presente, non dimostrano forse il contrario? È vero, non tutta la popolazione ha ancora accesso a internet. Ma sembra possibile immaginare altre soluzioni (a cominciare da detassazioni, già infinitamente meglio dei contributi diretti), che evitino di perpetuare il favore fatto agli editori cartacei e consentano finalmente una partita ad armi pari, dove la sopravvivenza è data dalla capacità di soddisfare il lettore dando le notizie meglio e prima di altri, piuttosto che da quella di sapersi accaparrare una quota di denaro del contribuente.
Anziché mettere a dieta gli editori cartacei, il Governo ha deciso di dare una fetta di torta anche alle testate on line, senza cogliere la differenza tra i due mondi, come invece la giurisprudenza è riuscita a fare. E, soprattutto, ha tradito la convinzione, dichiarata del resto apertamente dal premier Monti, che la libertà (in questo caso di stampa) abbia bisogno dello Stato-chioccia per prosperare.
A non lasciarla mai camminare sulle proprie gambe, però, si rischia di indebolirla quella libertà. Altro che “lievito”: qui il pericolo è di rendere il mercato editoriale sempre più dipendente dalla droga del contributo pubblico, pian piano contagiando anche l'editoria online. Una conseguenza con cui, prima o poi, si finirà per dovere fare i conti (salati).
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