Limitare i danni prodotti dalla propria candidatura. I danni prodotti dalla propria natura, verrebbe da dire, se non suonasse forse un po’ perentorio. Ma è così.

Il problema di Donald Trump coincide con le sue qualità, che gli hanno consentito di conquistare a luglio 2016 la candidatura di un antico partito, il partito di Lincoln, Eisenhower e Reagan, smentendo ogni possibile pronostico, tradizione partitica e opzione estetica: è uno che tende ad agire prima di pensare, di twittare prima di consultarsi con alcuno, che ha scelto di entrare in politica sebbene avesse nell’armadio in modo pregresso una quantità di questioni irrisolte e di possibili ostacoli tale da scoraggiare alla corsa quasi chiunque altro. Si è candidato lo stesso, ed era inevitabile che prima o poi la battuta scambiata sulle parti anatomiche di una hostess (a microfoni accesi), che le volgarità inflitte ad Alicia Machado sulla sua taglia, che i propositi di riesumare forme di tortura verso i prigionieri oggi vietate, che gli insulti a gruppi di persone come gli ispanici, i messicani, le donne, i disabili sarebbero venuti fuori, dolorosamente, durante la campagna elettorale.

Nella notte di domenica 9 ottobre, durante il secondo dibattito, Donald Trump è sembrato in grado di arrestare (temporaneamente?) la spirale verso il basso che nelle ultime quarantotto ore aveva messo a rischio la sua stessa corsa alla Casa Bianca. Era infatti più preparato, più calmo e più aggressivo della volta precedente, e ha parlato palesemente al proprio popolo, alla propria tribù, con un intento di rassemblement anziché di espansione dei consensi verso altre fasce di elettori: non si è rivolto direttamente alle persone che gli rivolgevano le proprie domande, come ha invece fatto Hillary Clinton, dimostrando così di non interessarsi alla modalità del dibattito, che era nella forma di un townhall debate, ovvero con l’intervento diretto del pubblico.

Pochi minuti prima che il confronto televisivo con l’avversaria democratica cominciasse Trump ha convocato una conferenza stampa a sorpresa in cui è apparso con tre donne - Paula Jones, Juanita Broaddrick e Kathleen Willey - che accusano Bill Clinton di averle stuprate o molestate sessualmente. Ad esse si è aggiunta una quarta donna, Kathy Shelton, che aveva dodici anni quando venne violentata da un uomo adulto in Arkansas. L’avvocato difensore del violentatore era Hillary Clinton, che riuscì a convincerlo a dichiararsi colpevole per ricevere una pena minore. Trump ha ottenuto che alcune delle donne sedessero in tribuna, e durante il dibattito ha aggiunto il costante riferimento a Bill Clinton al suo consueto arsenale dialettico - interruzioni continue della controparte, esagerazioni iperboliche, accuse ai moderatori, affermazioni incorrette quando non totalmente false (chi fosse appassionato al tema può consultare questa pagina del New York Times). Hillary “ha creato con Obama il vuoto che ha consentito allo Stato Islamico di proliferare”, ma avrebbe anche “firmato un trattato di pace” per mettere fine alla guerra in Siria (non è così). L’ISIS è stato citato da Trump in ogni occasione, anche senza connessioni logiche apparenti con il filo del discorso. Ad esempio, a una domanda relativa alla registrazione in cui lo si sente fare volgari affermazioni sui genitali femminili, il businessman ha risposto, letteralmente: “erano chiacchiere da spogliatoio, e comunque io distruggerò l’ISIS”. Quando Hillary ha detto: “meno male che una persona con il suo temperamento non ha ruoli di governo”, Trump ha risposto: “perché saresti in galera”.

“Difficile mettere insieme qualsiasi riflessione arguta di fronte a tutto questo. Mi arrendo”, ha twittato Bill Kristol, che (come tutti i neocon) quest’anno appoggia per la prima volta una candidata democratica. La principale ragione di questa nuova transumanza (i neoconservatori cominciarono a spostarsi nelle fila dei Repubblicani cinquant’anni fa, ai tempi di Nixon, e da allora erano solidamente rimasti nel GOP) è il rapporto ambiguo di Trump con il leader russo Vladimir Putin e la poca affidabilità nelle questioni del Medio Oriente. La Russia è stato invece uno degli obiettivi preferiti di Hillary durante il dibattito (curiosa inversione: solo quattro anni fa erano i Repubblicani a inserire Putin tra le minacce sottovalutate da Obama). La candidata democratica ha ripetuto l’accusa ai Russi di essere i promotori delle rivelazioni di WikiLeaks e (più grave) di animare direttamente gli attacchi informatici alle sue comunicazioni private e in casa democratica: “un avversario, un potere straniero, sta cercando di influenzare l’esito di queste elezioni, in favore di Donald Trump”. Per il resto, la Clinton ha giocato questa volta in difesa, con l’obiettivo di contenere la rinnovata violenza verbale dell’avversario.

E fin qui il dibattito. Ne seguirà un altro, e a questo punto ci si chiede a cosa mai potrà servire. L’irruenza antagonista e la tendenza all’approssimazione di Donald Trump, che potrebbe risultare persino simpatica in campi diversi da quello elettorale (come testimonia un insospettabile che lo conosce bene, Woody Allen, che come tanti democratici è in rapporti di risaputa cordialità con The Donald), è benzina gettata sul sistema politico americano. Il risultato è il progressivo smantellamento dell’ambiente familiare che un tempo era l’agone politico statunitense: la retorica inoffensiva di elefantini contro asinelli, il richiamo a un neutrale, innocuo patriottismo, la convergenza al centro, il fair play, il riferimento a vicinato, famiglia e bandiera come ancoraggi sicuri. Ripensiamo un attimo a quel “finiresti in galera”, che si può scrivere anche: “finirai in galera”. Ovvero: ti succederà, se io sarò eletto. La ritorsione "se diventerò Presidente ti farò incriminare dallo Stato" ha un sinistro sapore autoritario e illiberale. Per limitare i danni al proprio campo si finisce talvolta col farne di altri. Maggiori.