1. In un'intervista su Radio 24 che ha conquistato molto spazio sui giornali, il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Maria Chiara Carrozza ha dichiarato che «a settant'anni i professori universitari, se fossero generosi e onesti, dovrebbero andare in pensione, e offrirsi di fare gratuitamente seminari, seguire laureandi, od offrire le proprie biblioteche all'università». Il Ministro ha infatti spiegato di essere «stata sempre per un pensionamento rapido», ritenendo che «chi rimane in ruolo offende il proprio ateneo e i giovani», giovani a cui invece il Ministro vuole fare largo.
Chi scrive dichiara subito il proprio conflitto di interessi, in quanto mi trovo nella posizione di chi avrebbe tutto da guadagnare dalla decisione di liberare effettivamente molte posizioni per giovani accademici. Tuttavia, non sono d'accordo con il Ministro, e vorrei provare a spiegare perché.
2. Partirò da un dato di esperienza: il professore che mi ha seguito in un periodo di studi che ho trascorso negli Usa aveva circa settant'anni, ma era ancora attivissimo nel tenere rapporti con molti colleghi europei, nel gestire un programma di scambio internazionale tra studenti della sua università e di una francese, nel pubblicare ad alto livello, tenere corsi nuovi e intraprendere nuovi progetti. Ne sono passati altri cinque, e continua con lo stesso entusiasmo. Quando viene in Europa, tanti gli chiedono perché non vada in pensione, ma lui risponde che gli piace il suo lavoro, e che per fortuna non è obbligato a ritirarsi a una soglia fissa d'età, ma la può decidere liberamente.
Di sicuro quel professore non offende la propria Law School, cui continua a dare tanto. Ma, a dispetto delle apparenze, non toglie neppure spazio ai giovani. Gli economisti del lavoro hanno infatti dimostrato non solo che è infondata la convinzione che le opportunità di lavoro per i giovani aumentino se si prepensionano gli anziani. Addirittura, si è giunti alla conclusione che è vero invece l'opposto, com'è dimostrato dal fatto che nei Paesi dove vi sono più anziani al lavoro, anche i giovani hanno un livello di occupazione più alto. Questo vale in via generale e non vi sono ragioni per ritenere che l'accademia faccia eccezione.
Infatti, come ha ben spiegato Maurizio Ferrera in un editoriale sul Corriere della Sera circa un anno fa, «le economie non sono delle scatole rigide, che possono fornire occupazione solo a un numero fisso di persone: mille dentro solo se altre mille vanno fuori. Il totale è variabile e dipende da tanti fattori, gli stessi che generano crescita o decrescita: competitività, innovazione, capitale umano, diritto del lavoro e così via. Dove questi fattori si combinano in modo virtuoso, l’occupazione aumenta per tutti: giovani e anziani, uomini e donne».
In effetti, è utile estendere il ragionamento al caso dell'occupazione femminile: per aumentarla, non è affatto necessario diminuire il numero degli uomini che lavorano. Ciò varrebbe solo in un'economia del tutto statica, e dove si ritenga di poter misurare oggettivamente il valore delle unità di lavoro fornite, unità di lavoro di cui vi è un bisogno finito, per cui vi può essere bisogno solo di un numero predeterminato di lavoratori.
Una simile concezione non regge neppure per i lavori più meccanici e ripetitivi come quelli ad una catena di montaggio, ma ancor meno può reggere in un tipo di attività non misurabile quantitivamente, nonostante tutti gli sforzi che pure si fanno in tal senso, come quella accademica.
Ferrera citava in effetti tre Paesi europei che dimostrano che le cose stanno in questi termini: i Paesi Bassi hanno visto il tasso di occupazione femminile aumentare del 54 per cento nell'ultimo quindicennio, ma non per questo una diminuzione dell'occupazione maschile, invariata; il Regno Unito nello stesso periodo ha visto salire sia il tasso di occupazione giovanile sia quello tra 60 e 65 anni di età; mentre in Francia entrambi i valori hanno visto una decrescita.
In un'epoca in cui si fa un'attenzione estrema a non usare un linguaggio che urti la sensibilità degli appartenenti a categorie deboli, colpisce che il Ministro dichiari in buona sostanza che i settantenni dovrebbero ritirarsi ai giardinetti perché non hanno più nulla da dare all'università, e se proprio ci tengono dovrebbero offrirsi di lavorare gratis (pagandosi di tasca propria l'assicurazione infortuni obbligatoria, si suppone). Eppure, non si vede perché delle persone giunte al culmine della propria esperienza dovrebbero avere come unica opzione per continuare a offrire i propri servizi quella di farlo gratis, tanto più che magari la loro consulenza può venire remunerata profumatamente in altri settori, con il risultato che, come al solito, rimarranno solo gli eroi a continuare a lavorare nonostante gli incentivi a non farlo.
Inoltre, autorevoli studi (Thody 2011, Hartley 2012) dimostrano che la tarda età (ammesso che 70 anni possa essere considerata tale) non è necessariamente sinonimo di esaurimento delle capacità di contribuire al progresso della propria disciplina: molti accademici in pensione hanno continuato ad apportare contributi importanti al rispettivo campo, e l'esempio più eclatante degli ultimi decenni è forse il Premio Nobel Ronald Coase, morto a quasi 103 anni mentre continuava a fare ricerca e a pubblicare. Ma moltissimi di coloro che frequentano le università avranno in mente almeno un maestro che, pur costretto alla pensione, continua a lavorare, per amore della propria disciplina e dei propri allievi.
Come tutte le soglie, dunque, anche quella dei 70 anni appare eccessivamente rigida e arbitraria, lasciando inevitabilmente fuori dall'accademia persone che avrebbero ancora moltissimo da darle, e invece tenendo troppo a lungo al proprio posto altre che invece dovrebbero poter essere allontanate prima per scarsa produttività, mentre ad oggi non è possibile.
Appare quindi preferibile indirizzare gli sforzi verso l'introduzione di una maggiore elasticità in materia, come accade negli Stati Uniti del caso citato all'inizio, ma anche nel Regno Unito, dove il governo nel 2011 ha abolito in via generale l'obbligo secco di pensionamento a 65 anni, lasciando maggiore libertà ai singoli datori di lavoro, e nel nostro caso ai singoli atenei, di stabilire le proprie politiche di pensionamenti e assunzioni.
Del resto, non si vede come possa essere economicamente sostenibile una programmazione centralizzata delle esigenze di personale accademico di tutte le discipline di tutte le università di tutta Italia. Solo le singole università, e in realtà i singoli dipartimenti, hanno il polso di quanti ricercatori, associati e ordinari serviranno loro nei successivi anni, e di quanti invece possono fare a meno. Del resto, università straniere sono cresciute in tempi molto brevi con un programma di forti assunzioni, investendo sul corpo accademico per attrarre studenti e finanziamenti. Altre università più affermate possono invece voler optare per una politica sul personale più conservativa, mantenendo al proprio posto alcuni importanti docenti fin tanto che questi desiderano continuare il proprio lavoro, per la felicità sia loro sia degli studenti.
Questa diversità di approcci, che amplia l'offerta di istruzione superiore e quindi permette di incontrare meglio i gusti di chi esprime la domanda, con la soglia rigida difesa dal Ministro Carrozza non è possibile: ci si limita a “rottamare”, come hanno efficacemente sintetizzato diversi giornali, chi si pensa che non serva più solo per via dell'anagrafe, e anzi magari lo si incentiva ad andarsene al più presto.
Senza contare un ulteriore aspetto: i professori costretti ad andare in pensione diventano automaticamente un peso per il sistema previdenziale, e con il (benedetto) progressivo aumento dell'età media di vita tale peso aumenta a sua volta. Se si considera il funzionamento attuale dei sistemi previdenziali dei Paesi occidentali, e italiano in particolare, ci si rende conto che paradossalmente i giovani nel loro complesso hanno tutto l'interesse a mantenere gli anziani il più a lungo possibile al lavoro, posto che è chi è appena entrato nel mercato del lavoro a pagare oggi le pensioni di chi ne esce, e visto che i contributi accantonati nel corso della propria vita dagli attuali anziani sono stati bruciati da un sistema pensionistico basato sul sistema retributivo e su altri benefici insostenibili.
3. Pertanto, al singolo giovane accademico può naturalmente convenire che un ordinario settantenne vada in pensione e liberi alcune posizioni da ricercatore, tuttavia dal punto di vista economico non è sostenibile la visione del mondo del lavoro, e tanto meno dell'accademia, come un mondo dove le persone siano intercambiabili per scelta d'imperio politica, dove un giovane alle prime armi sia equivalente a un professore pieno di esperienza, o a una qualche sua frazione, come nelle incredibili regole di punteggio che governano il reclutamento dell'università italiana (pubblica ma anche, per via del valore legale del titolo di studio, privata).
Il Ministro quindi dovrebbe piuttosto spingere sul versante della mai sufficientemente attuata autonomia universitaria, avere il coraggio di introdurre delle forme di penalizzazione di chi, giovane o anziano, occupa un posto senza essere produttivo, nonché, in attesa di una piena liberalizzazione, rimuovere tutti gli ostacoli all'apertura delle università pubbliche ai finanziamenti privati, così che queste possano competere per l'attrazione dei migliori talenti, del tutto indipendentemente dalla loro età. I tagli lineari sono ingiusti e non funzionano quando il governo li impone agli enti locali o alle amministrazioni pubbliche, perché penalizzano uniformemente virtuosi e non (anzi, di più i virtuosi), ma vale lo stesso quando si applicano all'organico accademico, che non va tagliato in modo secco a una determinata età, come se si trattasse di una pesca a strascico, ma lasciato alla libera determinazione del singolo professore e del suo ateneo-dipartimento.
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