È apparsa sul National Geographic una fotografia generata al computer che ritrae una giovane donna molto avvenente ma dai tratti indefinibili. Bianca? Nera? Latina? Nessuna di queste cose, ma tutte insieme. L’immagine infatti è quella di una statunitense di metà ventunesimo secolo. Si prevede che a quel punto molti dei tratti distintivi delle diverse razze e etnie che compongono il calderone americano si saranno così ben amalgamati da formare accostamenti somatici inediti e imprevedibili.

Per un paese la cui storia è stata per lunghi periodi soggetta a una color line etnico-razziale, la scomparsa, o meglio l’amalgama dei tratti somatici, non può che essere accolta con sollievo. Siamo dunque alla fine di quel lungo tunnel che faceva degli Stati Uniti uno dei paesi più segregati al mondo? È possibile, ma forse non è questo il punto. Man mano che le razze e le etnie entreranno nell’indistinto, emergerà con chiarezza un altro problema, finora rimasto nell’ombra. La vera origine del problema razziale negli Stati Uniti stava infatti in un piccolo congegno di ingegneria discorsiva. Per un lungo tratto della loro storia gli americani si sono detti di essere una classless society o meglio ancora, una società composta interamente da una estesa classe, la classe media. La cosa era abbastanza vera – se si consideravano soltanto i bianchi di origine nord-europea. Il razzismo aiutò quindi a coprire la proletarizzazione dei non-bianchi, strato sociale basso che diveniva invisibile perché in fondo non-americano. Se i neri fossero stati dei veri americani, sostenevano i razzisti bianchi, si sarebbero dati da fare dopo l’emancipazione, diventando anch’essi parte della classe media. Per costoro, se non accadde, non fu per via di un feroce pregiudizio razziale che li colpiva, ma in ragione della loro endemica indolenza di chiara provenienza africana.

La fine della visibilità della color line porta sì a una probabile fine del discorso sulle razze, ma fa anche emergere un altro dato, che infatti sta occupando sempre di più l’agone pubblico americano: l’endemica divaricazione fra ricchi e poveri che caratterizza il paese. In altre parole, un paese che si credeva privo di classi, con l’attenuarsi del razzismo si scopre diverso da quello che da sempre aveva creduto di essere.

Si sta quindi prospettando un momento della verità per gli Stati Uniti. Vediamo di esporre qui sotto alcuni delle sue implicazioni, di natura interna e nei rapporti con il resto del mondo.

1. Siamo alla fine dell’eterno ritorno dell’eccezionalismo americano? Da Tocqueville agli anni cinquanta la storia americana è stata raccontata come il trionfo della democrazia sul dispotismo. Dagli anni sessanta in poi, invece, è diventata la storia di come razze ed etnie diverse si siano scontrate fino a piegare le deboli istituzioni politiche americane alle esigenze della diversità culturale. Se il primo approccio è stato consensualista ed eccezionalista (la storia americana è la storia di come si sia evitata la lotta di classe attraverso la mediazione offerta dalle istituzioni della democrazia rappresentativa), il secondo è stato conflittualista e multiculturalista. Ciò che rende “eccezionale” la storia americana, in questa seconda interpretazione, è solo la brutalità con cui un gruppo di potere etnico, i bianchi, ha saputo ridurre al silenzio tutte le altre razze ed etnie sfruttandone biecamente la forza lavoro.

Nessuna delle due storie è vera. Nessuna storia lo è. Le narrazioni storiche non sono altro che la cura e manutenzione delle tradizioni che un gruppo o un popolo ritengono vitali per il presente. Questo non significa che non aderiscano ai fatti, tutt’altro. Ma l’aderenza è tutta nel presente. Se un fatto non è ritenuto importante, viene dimenticato. Basta fare una passeggiata nei parchi pubblici di ogni paese per imbattersi in busti o statue equestri di esimi sconosciuti divenuti famosi per azioni la cui memoria si è persa.

Il processo di attenuazione fino a una  verosimile prossima scomparsa della color line in America è in atto da tempo. Quando sarà del tutto sparita nell’indistinto diverrà indistinta anche l’idea (davvero bizzarra) che ad ogni razza ed etnia corrisponda una “cultura” diversa e isolata. Scomparirà con essa l’idea che la storia americana non è stata che un continuo scontro? A giudicare dall’attuale discorso politico e dell’attuale produzione scientifica viene da dire di no. Solo che il conflitto oggi non pare più quello fra razze ed etnie, ma fra classi sociali distinte. Ovvero, con il finire del racconto “multiculturalista” non si ritorna al racconto “eccezionalista”, tutt’altro. Lo scontro fra consensualisti e conflittualisti si sposta su un altro terreno, quello più squisitamente politico. Ossia, scomparso il velo della “cultura” ritorna la lotta politica, condotta non più lungo l’asse portante della “razza”, ma su quello della “classe”. I consensualisti ripeteranno, come già stanno facendo (Obama ne è solo un esempio), che ciò che comunque unisce gli americani è più forte di ciò che li divide. Mentre i conflittualisti sosterranno il contrario. Momenti come questi sono comunque già occorsi in passato, ad esempio nel tentativo dei progressisti di limitare i poteri dei trust di fine ottocento. Si è iniziato con la retorica conflittualista di Theodore Roosevelt e si è finiti con il discorso consensualista di Woodrow Wilson. A porre un freno (temporaneo) ai trust e alle corporation ci ha poi pensato la Grande Depressione.

Se è molto probabile che in futuro non sentiremo più parlare di multiculturalismo, sarà così anche per l’eccezionalismo? C’è da dubitarne. E il motivo è semplice. L’eccezionalismo non è altro che il risvolto romanzato del buon funzionamento delle istituzioni politiche americane, che finora hanno retto l’urto del tempo. Non è questo dispositivo istituzionale il vero problema americano. Come diceva il filosofo liberal Richard Rorty, “il mondo dovrebbe assomigliare di più agli Stati Uniti, e gli Stati Uniti alla Scandinavia.” Ovvero, il sistema politico americano funziona benone; è il suo sistema sociale che non funziona più così tanto bene.

2. Un paese che fino a poco tempo fa si credeva privo di classi si scopre quindi percorso da diseguaglianze profonde. Già movimenti come Occupy Wall Street e il revival del marxismo negli ambienti accademici lasciano presagire cambiamenti profondi nel modo in cui gli Stati Uniti si rivolgeranno a se stessi e alla loro storia. Ma quale influsso potrebbe avere la scomparsa della color line sul modo in cui gli americani si relazionano al mondo? La domanda non è secondaria, visto che il potere di proiezione della potenza militare ed economica americana non è affatto di secondo piano.

È presto per giungere a una qualsiasi conclusione. Ma amalgamandosi sempre di più fra di loro gli americani assomiglieranno sempre meno al resto del mondo. Finché rimanevano una assemblea in seduta permanente dove erano rappresentate tutte le razze ed etnie del pianeta, gli Stati Uniti potevano dire di rispecchiare in sé il mondo. Ma amalgamandosi diverranno sempre più un’altra e distinta etnia, se non proprio una nuova razza. Questo li renderà diversi da ogni altro luogo del pianeta.

Diventando diversi, si attenueranno per scomparire i legami emotivi con il resto del mondo. Fino al 1945 gli Stati Uniti sono stati un paese fondamentalmente europeo. I legami di sangue fra l’élite politica ed economica della nazione americana e le élites europee, soprattutto quelle britanniche, erano saldi e forti. Se gli Usa sono intervenuti in Europa dopo Pearl Harbor non fu perché i giapponesi erano alleati dei nazisti, ma perché era logico e naturale a quel punto intervenire in appoggio degli inglesi. La guerra europea li riguardava, mentre fino ad allora avevano guardato dall’altra parte. Oggi, e sempre più in futuro, sarà difficile far leva sulle comuni radici che legano americani ed europei. Non ci saranno più. Avere un antenato europeo fra una serie di antenati provenienti da ogni dove non sarà più come avere una diretta linea di discendenza dal Mayflower. Per non dir nulla dell’inglese, che ormai è britannico solo per distante parentela. E chissà come sarà in futuro quando non solo i tratti somatici ma anche le parlate si intrecceranno.

3. Prevedere il futuro è un mestiere ingrato ma necessario. Con ogni probabilità, nei prossimi anni gli Stati Uniti si riposizioneranno nel mondo assumendo una postura meno difficile da sostenere di quella presa durante la guerra fredda o da quella imperiale ipotizzata dai neoconservatori. Se dovessero davvero riconfigurarsi al loro interno, il riposizionamento sarebbe probabilmente più accentuato. Soprattutto se gli altri paesi dovessero continuare a mettere in pratica politiche ostili all’immigrazione, alla contaminazioni fra le genti, e ai valori che lubrificano la coabitazione delle differenze.