Obama ha di che essere soddisfatto. Dopo più di due anni di veti incrociati al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la minaccia di usare la forza ha finalmente sbloccato la questione dell'arsenale chimico siriano. Fino a quel momento, il diritto di veto di Russia e Cina avevano bloccato ogni tentativo di giungere a una soluzione diplomatica del problema. Dopo la minaccia, la Russia ha spinto la Siria ad accettare un rapido piano di disarmo chimico e la Cina non si è opposta. Tutto bene quindi? Non proprio. Malgrado l’iniziativa americana abbia avuto successo (un successo relativo, certo, alla credibilità degli interlocutori, ancora tutta da dimostrare), ben pochi paiono averlo recepito come tale. Solo 4 americani su 10 sono soddisfatti di come sono andate le cose in Siria e il parere degli esperti è generalmente negativo.
1. Il direttore delle pagine sugli esteri dell’Economist, Edward Lucas, è arrivato a dichiarare ai microfoni della BBC: “I think that Barack Obama's proved to be the worst American president since Jimmy Carter. Perhaps even worse than Jimmy Carter. It's a quite astonishingly bad mixture of a very chilly attitude to allies, appeasing enemies, a very calculating, dithering approach followed by impulsive decisions that aren't thought through.” Lucas stava commentando l’inverosimile (e indecente) intervento pubblicato da Vladimir Putin sul New York Times dove l’autocrate ex-capo del KGB metteva alla berlina l'azione diplomatica americana.
Ma se i commentatori politici si concentrano sull’efficacia delle mosse dei grandi attori internazionali, l’opinione pubblica interpreta l’azione di Obama come un fallimento partendo da un presupposto diverso, l'ostilità generalizzata all'uso della forza militare. Per sbloccare l'impasse diplomatica alla luce dell'uso di gas nervino contro la popolazione inerme Obama ha infatti minacciato l’uso della forza militare, e chi minaccia la guerra è un pericolo per la stabilità e la pace a prescindere dalle intenzioni. Al contrario, il presidente della federazione russa Vladimir Putin ha evitato «la guerra» e quindi ha aiutato a preservare «la pace». È la Russia dunque il vincitore morale di questo round perché ha «riportato» la vicenda sul piano diplomatico, quello stesso piano sul quale per due anni aveva osteggiato in ogni modo l'iniziativa americana insieme alla Cina, e con l'appoggio di India e Brasile. In altre parole, il successo dell’iniziativa di Obama è oscurato dal modo in cui lo ha ottenuto. Minacciando l’uso della forza.
Volendo avvicinare questo risultato sconsolante (per Obama) dal punto di vista della teoria dell’inquadramento narrativo, potremmo dire che probabilmente l’errore della diplomazia americana è aver sottovalutato il potere dell’antinomia discorsiva costruita sulla dicotomia «guerra/pace». Non basta ridescrivere la guerra come «azione militare» per scardinarla. Nel discorso comune, l’antinomia, una volta attivata, porta ineluttabilmente alla riprovazione morale di ogni iniziativa dove la forza militare gioca un ruolo. L’umanità anela alla pace. Non appena qualcuno è accusato di volere la guerra, quel qualcuno è automaticamente designato come nemico dell’umanità. E Obama si è fatto spiazzare da questo discorso come se ne fosse del tutto ignaro.
Ora, se non stupisce affatto che la destra americana si sia scoperta d’improvviso «pacifista» (questa destra confusa e dogmatica negherebbe qualsiasi evidenza pur di provare a se stessa e al mondo che Obama è un buono a nulla), stupisce che la sinistra possa non gioire del risultato conseguito, ossia l'aver costretto un dittatore sanguinario e il suo protettore internazionale a venire a più miti consigli. Non dovrebbe essere questo un obiettivo di ogni «sinistra» in politica estera? Evidentemente, l’aver minacciato la guerra, vince sul risultato ottenuto. Pare proprio di poter dire, a questo punto, che l’impiego della forza militare è diventato un tabù per la sinistra, e viene da chiedersi come si sia potuti giungere a questo punto.
In parte il problema può essere spiegato con l’uso tattico della menzogna politica fatto dall’amministrazione di Bush per giustificare l’attacco all’Iraq. L’immagine di Colin Powell che mostra un barattolo di polvere alle Nazioni Unite è ancora nei nostri occhi come un ricordo indelebile. Gli Stati Uniti dicevano che occorreva intervenire militarmente in Iraq per sottrarre le armi chimiche a Saddam Hussein. Il conflitto ebbe luogo, ma di quelle armi chimiche non si trovò traccia. (Oggi si dice che furono trafugate nottetempo in Siria). La credibilità persa dal governo americano in quel frangente non verrà recuperata tanto facilmente, se mai lo sarà. Questo, unito al risultato a dir poco disastroso dell’invasione, ha portato la sinistra a dubitare istintivamente di ogni paventata «opzione militare». Ci mentiremmo però se dicessimo che il problema è solo contingente. La verità è sotto gli occhi di tutti. La sinistra ha perso ogni dimestichezza con l’idea stessa di impiegare la forza militare, se mai l'ha avuta. Tanto che oggi potremmo essere portati a dire, con uno stereotipo infantile, che chi è per «la pace» è di sinistra, chi è per «la guerra» è di destra. Il che è un problema visto che il tema della sicurezza nazionale non è né di destra né di sinistra, né è cosa da bambini. È il primo dovere di ogni governo. Un governo che non curi la sicurezza nazionale mette il proprio paese in balia del caso, o della fortuna, nel senso indicato da Machiavelli. Ed è un rischio che nessun governo degno di questo nome può correre. Siamo dunque giunti a questo: all’ineleggibilità della sinistra? Perché è ovvio che se quanto ora detto fosse vero, in un mondo non pacificato come il nostro sarebbe un azzardo portare al governo chi non userebbe mai la forza militare in nessun frangente. Per fortuna che c’è Obama a provare il contrario: che si può essere di sinistra e ritenere legittimo l’impiego delle forze armate.
Il problema è che Obama, appunto, non pare riscuotere alcun successo presso l’elettorato di sinistra, neppure quello che lo ha eletto. Oggi solo un americano su tre è favorevole all’intervento in Siria e non è detto che voti per lui. Secondo Edward-Isaac Dovere, la sinistra americana ha già revocato a Obama le credenziali di liberal. Ormai Obama per loro è di destra.
In quanto segue userò un quadro sinottico redatto per Al Jazeera America dallo storico della Columbia Samuel Moyn, specialista di diritti umani, e Stato di legittima difesa un libro recentemente pubblicato dal filosofo italiano Simone Regazzoni (Ponte delle Grazie). Userò questi due testi per fare il punto sul rapporto fra guerra e sinistra alla luce della minaccia di Obama a far uso della forza militare. Moyn ci aiuterà a capire quanto simile, ma diverso sia il panorama americano da quello italiano, e quindi quanto peculiare sia la posizione presa da Obama. Regazzoni ci aiuterà ad argomentare come per uscire dalla propria crisi geopolitica la sinistra (e la sinistra italiana in particolare) deve capire che cosa muova Obama alla guerra. Per dirla con Regazzoni, senza mezzi termini: “Obama è il nome del trauma che la sinistra deve elaborare se vuole entrare nel XXI secolo."
2. Nota Samuel Moyn che da quando si è paventato l’intervento militare americano in Sira tre diverse posizioni si sono cristallizzate nel discorso pubblico americano. La posizione «umanitaria», quella «anti-imperialista» e quella che Moyn chiama «pragmatica».
La prima posizione, quella umanitaria, impone che alla sofferenza si risponda con l’azione. Se qualcuno soffre nel mondo a causa della violenza del proprio governo bisogna che la comunità internazionale intervenga. Visto che nessuno vuole o può intervenire in Siria, se gli Stati Uniti non intervengono civili innocenti continueranno a morire. Va notato che questa è solo in parte la posizione di Obama. Obama ha tollerato l’uccisione di civili innocenti fino al momento in cui Assad non ha usato armi chimiche. Questo si aggiunge allo scetticismo che accompagna oggi l’idea che una grande potenza possa agire per fini puramente morali. Era forse possibile dirlo per il Kossovo nel 1999 (quando Moyn era intern alla Casa Bianca durante la presidenza Clinton), ma nel 2013 non è più possibile sostenerlo. Troppe cose sono intercorse. Obama ha accuratamente evitato di usare la locuzione «intervento umanitario», evitando anche l’eufemismo “the responsibility to protect.” Ha usato piuttosto la norma che bandisce l’uso di armi chimiche.
La seconda posizione, quella anti-imperialista, si fonda tutta sull’ipocrisia dell’Occidente nel dichiarare scopi morali per perseguire i propri fini di potenza. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono già intervenuti varie volte in Medio Oriente per difendere i propri interessi senza curarsi affatto della volontà o del benessere dei popoli della regione. Non deve stupire, sostiene a ragione Moyn, che dopo l’Iraq gli Stati Uniti debbano persuadere un’opinione pubblica internazionale molto più scettica e disillusa. Chi dubita della buona fede di Obama nel voler muover guerra per far rispettare un trattato internazionale fa giustamente notare che gli Stati Uniti hanno loro stessi rotto o ignorato trattati internazionali di vario genere. Il fatto che Obama parli di «norme internazionali» e non di «leggi» fa capire come il presidente abbia ben presente i limiti della propria posizione. La Siria non ha firmato i trattati che bandiscono l’uso delle armi chimiche mentre gli Stati Uniti avevano ratificato le convenzioni contro l’uso della tortura quando iniziarono a torturare i «nemici combattenti» catturati dopo l’undici settembre. “Thus,” conclude Moyn, “both law and norms seem to matter to the U.S. chiefly when it says so.”
“Those concerned with legality should meditate on this disturbing fact. Only petty dictators, not American presidents, are subject to ’red lines’ and consequences when they are crossed. As for those who insist that humanitarian exigency trumps international law, it should not do so only when it suits great powers.”
La terza posizione, quella che Moyn chiama pragmatica, evita la rigidità ideologica delle prime due per cercare di pervenire comunque al risultato. Nell’intraprendere una azione si parte dalla sua efficacia e non dalla norma, dal principio giuridico, o dall’esigenza politica che la giustificherebbe. A questo proposito Moyn cita Un recente intervento di Alex de Waal e Bridget Conley-Zilkic in cui si sostiene che “the basic issue is efficacy, not legality.” Ovvero, l’obiettivo è quello di alleviare le sofferenze del popolo siriano e impedire che civili innocenti vengano massacrati dal proprio governo.
Moyn fa notare che è proprio sul piano pragmatico che de Waal e Conley-Zilikic contestano l’azione intrapresa da Obama. Non sarebbe efficace e promuoverebbe un ordine mondiale incerto. Eppure, a posteriori, a questo punto potremmo invece concludere il contrario. Alla fine l’azione di Obama è stata efficace, e per questo sarebbe giustificata sul piano pragmatico. Di questo avviso era già John Judis, che il 3 settembre aveva sottolineato come l’azione di Obama non fosse quella di bombardare la Siria, bensì di minacciare l’uso della forza per forzare la mano della Federazione russa al Consiglio di sicurezza, così da mettere la Siria di fronte alle proprie responsabiltà.
È da notare come nella mappatura di Moyn manchino due posizioni che in Italia invece vanno per la maggiore, il “pacifismo senza se e senza ma” e il cosiddetto “realismo politico”.
La prima posizione è assai variegata e comprende al suo interno i cattolici movimentisti e la sinistra radicale e i centri sociali neofascisti. Questi ultimi hanno mandato da Assad una delegazione, ricevuta dal regime in pompa magna e al massimo livello. Alla testa di questo movimento d'opinione si è posto Papa Francesco quando ha dichiarato che le guerre vengono ancora combattute per vendere armi e che le guerre non hanno mai portato a nulla, petizione di principio che gli ha portato il plauso dei centri sociali di sinistra e dei No Tav.
C'è ovviamente una certa affinità fra la critica anti-imperialista e il populismo pacifista. Si tratta però di una affinità superficiale. La critica anti-imperialista si fonda su di un solido apparato scientifico e su di una visione sofisticata della storia. Il pacifismo “senza se e senza ma”, ossia senza il bene dell'intelletto, è solo l'espressione di un sentimento popolare. Giusta o sbagliata che sia, non è una posizione credibile perché la conclusione a cui giunge è sempre la stessa ed è tagliata con l'accetta.
Ai cattolici movimentisti e alla sinistra radicale va poi aggiunta la sempre più ampia frangia antiamericana. Si tratta in parte di un residuato bellico della guerra fredda, quando era uno dei compiti statutari dell'intellettuale organico stigmatizzare il militarismo americano in funzione propagandistica. Oggi alle vecchie truppe dell'antiamericanismo militante si aggiungono gli intellettuali di complemento di ogni colore che per una ragione o per l'altra si sentono minacciati dal potere accumulato dagli Stati Uniti. Obama è per loro una versione riveduta e corretta di George W. Bush, e non quel messia salvifico che taluni avevano voluto salutare all'indomani della vittoria elettorale.
Alcuni dei “pacifisti” italiani si riconoscono anche nell'altra posizione che va per la maggiore in Italia, il cosiddetto “realismo politico”. Questa posizione non riconosce come legittimo il problema morale che tutte le posizioni illustrate sin qui riconoscono come il problema da risolvere.
Che in un mondo globalizzato non si può assistere al massacro di civili e starsene con le mani in mano, soprattutto se si posseggono i mezzi logistico-militari per impedirlo. Questo è un problema particolarmente sentito dagli Stati Uniti e per due motivi fondamentali.
Il primo motivo è contingente. Volenti o nolenti gli Stati Uniti sono oggi l'unica potenza planetaria in grado di mantenere in piedi il sistema internazionale su cui tutti noi contiamo per vivere in relativa pace. Potrà sfuggire, ma stiamo vivendo il periodo più pacifico della storia dell'umanità e non è successo tutto per caso. Qualche merito gli Stati Uniti ce l'hanno. Questo paese è dunque investito, o si sente investito (che poi è la stessa cosa) di particolari responsabilità.
Il secondo motivo è congenito all'identità americana. Negli Stati Uniti la posizione realista è comunque fondata su basi morali, come tutto quello che appartiene al discorso pubblico americano. Ossia si può essere pragmatici, e fare i propri interessi, solo se l'obiettivo è quello di alleviare le sofferenze del popolo Siriano, come mostrava Moyn. È per questo che bisognerebbe dare più ascolto alla posizione anti-imperialista. Questa posizione critica al discorso pubblico americano mette in risalto quanto di sbagliato si è fatto e si continua a fare in nome degli obiettivi etici che si pone la politica estera americana. In altre parole, è la coscienza critica del discorso pubblico americano. Che però è e non può che essere (per ragioni identitarie) "eccezionalista".
L'eccezionalismo americano non è solo il discorso secondo cui gli Stati Uniti sono eccezionali rispetto ai paesi europei (ovvero, “fanno eccezione”) in virtù del fatto che nella loro storia manca il medio evo. Gli americani non sono migliori per via di questa lacuna. Sono migliori perché vogliono esserlo. Hanno introiettato il progetto dell'Illuminismo al punto da aver fondato il loro stesso vivere civile sulla condivisione di alcuni valori etici fondamentali. Se i conservatori Americani credono che l'eccezionalità americana sta a monte (gli americani sono già migliori degli europei in virtù della loro storia), i liberal credono che stia a valle (per rimanere americani occorre portare a termine il progetto dell'Illuminismo e raddrizzare la propria storia ch'è fatta di deviazioni dal progetto iniziale). Ma sia gli uni che gli altri non accetterebbero mai di agire secondo il realismo politico di stampo europeo, che è amorale per definizione. Sarebbe abiurare la propria identità rinunciando alla missione storica che questo paese ha voluto dare a se stesso.
Non è un caso quindi che all'indomani della sua “vittoria”, Putin abbia fatto pubblicare a suo nome uno scritto che terminava proprio con una confutazione dell'eccezionalismo.
My working and personal relationship with President Obama is marked by growing trust. I appreciate this. I carefully studied his address to the nation on Tuesday. And I would rather disagree with a case he made on American exceptionalism, stating that the United States’ policy is “what makes America different. It’s what makes us exceptional.” It is extremely dangerous to encourage people to see themselves as exceptional, whatever the motivation. There are big countries and small countries, rich and poor, those with long democratic traditions and those still finding their way to democracy. Their policies differ, too. We are all different, but when we ask for the Lord’s blessings, we must not forget that God created us equal.
Tralasciando il lieve disgusto che viene dal leggere simili parole da chi non riconosce alcun diritto di eguaglianza alle persone omosessuali e le perseguita, l'argomentazione di Putin è perfetta. Questa è esattamente la posizione che gli americani non possono e non vogliono prendere. Pena il diventare del tutto simili a un paese in cui un uomo come Putin può assurgere al ruolo di autocrate e parlare ex cathedra dopo esser stato un dirigente del KGB e dopo essersi macchiato di delitti immondi in Cecenia.
Obama è talmente conscio dell'importanza che l'eccezionalismo riveste per gli americani che ha eletto la sua difesa allo status di difesa dell'interesse nazionale. Ecco illustrato il principio guida della National Security Strategy per il 2013, che recita:
The United States will lead the international order as a nation first among equals to encourage stability, foster economic growth, promote democratic values, and protect global strategic interests. Our nation is strongest when we adhere to the core values and interests of the citizenry.
La nazione americana è più forte quando aderiamo ai valori cardini e agli interessi dei cittadini. La sicurezza nazionale è quindi pragmaticamente mediata dal compromesso fra valori e interessi. In altre parole, ogni azione in politica estera difende l'interesse nazionale quando si fonda sui valori cardine della democrazia americana.
L'identificazione dell'eccezionalismo con la difesa dell'interesse nazionale fa coincidere il realismo politico con l'idealismo che guida la politica americana dalla sua fondazione. Potrà non piacere agli europei che riescono a tollerare massacri a pochi minuti di volo da casa propria, ma agli americani quest'esercizio di cinismo morale non riesce neanche dall'altro capo del mondo. Il che non significa che si sentiranno in obbligo di intervenire sempre e in ogni luogo, quasi fossero la mano del Signore. Significa che per loro il problema non è eludibile. Gli americani non sono eccezionali. Anelano esserlo, almeno secondo liberals come Obama. E checché ne pensino statisti della levatura di Putin, è un bene. Significa porsi il problema delle conseguenze delle proprie azioni. Qui morale pubblica e pragmatismo possono coincidere, perché se le conseguenze di una azione non dovessero essere morali l’azione stessa non lo è. Come diceva William James seguendo il metodo pragmatista di Charles Sanders Pierce, il significato di una proposizione non è derivabile dalle intenzioni che la muovono, ma dalle conseguenza pratiche a cui porta.
3. Va detto che se manca in Italia una posizione pragmatica come quella americana è anche in ragione dell'assenza nel nostro paese di una forza militare da far intervenire. Il nostro orizzonte è necessariamente diplomatico. Ma vien da chiedersi se non vi sia alcuna lezione che la sinistra italiana possa prendere da un liberal come Obama per evitare il dogmatismo infantile dei pacifisti (che si accorgono di una guerra solo dopo che gli americani minacciano di intervenire) e l'atteggiamento amorale dei “realisti” (che riuscirebbero a tollerare qualsiasi nequizia purché non li riguardi). Secondo il filosofo Simone Regazzoni, la sinistra ha tutto da imparare da Obama.
Nel suo ultimo libro, Stato di legittima difesa, Regazzoni analizza la lotta al terrorismo praticata da Obama per mostrare quali siano i limiti di una sinistra che non riesce più a pensare la guerra.
Molti si sono stupiti a sinistra che Obama non abbia chiuso Guantanamo appena eletto, liberato tutti i “nemici combattenti” catturati negli anni, e dichiarato conclusa la Guerra globale al terrore. Se Obama non l’ha fatto è perché al contrario di loro ha capito qualcosa di fondamentale sul nostro tempo. “Obama ha proseguito sulla strada tracciata dal suo predecessore perché ... essa restava l’unico modo efficace per rispondere a una minaccia reale.” La ricerca dell’efficacia è il motore stesso di un appoggio pragmatico e non dogmatico. È anche l’unico modo per misurarsi con quello che Donald Rumsfeld chiamò the unknown unknown, ciò che neppure immaginiamo di non sapere. E la minaccia di al Qaeda agli Stati Uniti è di questa natura proprio perché elude le tradizionali categorie dell’agire politico. Al netto delle storture e delle deviazioni introdotte da Bush all’obiettivo iniziale della guerra al terrorismo, ossia al netto della inutile e controproducente campagna irachena, Obama ha rimesso al centro la questione fondamentale. Con un nemico che non riconosce l’umanità di chi assale non si ragiona. Va annientato. Obama ha cambiato nome alla guerra, da Guerra globale al terrorismo a Overseas Contingency Operation, ha dismesso l’uso e l’abuso del termine enemy combatant, ma non ha smesso neppure per un istante di credere che la guerra è la sola risposta a chi ci vuole annientare. E chi vuole annientare va annientato.
Credere che questo sia un discorso “di destra” è non aver la più pallida idea di che cosa sia al Qaeda e ritenere che la difesa da un simile oppositore, che Regazzoni dipinge nei termini schmittiani di “nemico assoluto”, non possa essere legittima. L’uso della forza militare contro un simile nemico è luttuosa, brutale e crudele, come la più ingiusta delle guerre. “Ma al contempo essa è una FORZA GIUSTA, in quanto forza di legittima difesa della democrazia a fronte della minaccia del nemico assoluto.” (74)
“Leggere questa forza eccezionale della democrazia di cui Obama è il nome come un fenomeno transitorio legato ad una situazione di emergenza sarebbe un errore. Significherebbe disconoscere il fatto che il terrorismo è uno degli elementi che caratterizzano il nuovo ordine mondiale.” (75)
Secondo Regazzoni questo nuovo ordine mondiale in cui il terrorismo non è estirpabile ha portato a un vero e proprio cambio di paradigma all’interno del discorso della democrazia rappresentativa. “Che dalla guerra al terrorismo l’idea di democrazia liberale esca profondamente trasformata o meglio decostruita è indubbio. Ma non è detto che sia un male. La nostra è l’epoca della democrazia post-liberale in cui il potere dell’esecutivo prevale sulla cornice di regole che dovrebbero contenerlo, in cui il presidente decisionista prevale sulla rule of law. Quel che è in atto, nell’epoca della guerra al terrore, è dunque la reinvenzione della democrazia al di là del limite del legalismo liberale."
La posizione presa da Regazzoni è proficua anche se è errata in punta di dottrina. È errata perché non ricorda che il costituzionalismo americano ha programmaticamente evitato la dottrina della sovranità per costruire invece un impianto istituzionale a geometria variabile dove il potere esecutivo, legislativo e giudiziario si equilibrassero a vicenda. Quando interviene una guerra, la Costituzione è disegnata per convogliare il massimo del potere verso la Presidenza, e questo per ovvie ragioni di comando e controllo. La “presidenza imperiale” emerge proprio in questi frangenti. Ma anche in questi momenti gli altri due poteri sono in piena tensione per riportare il sistema al riequilibrio non appena possibile. Essendo Regazzoni un europeo (avendo studiato in Italia e in Francia sotto Derrida), impiega Schmitt per sciogliere nodi che con Schmitt non hanno nulla a che vedere. La critica della sovranità come secolarizzazione di una categoria teologica funziona quando la si applica alla presidenza imperiale, ma porta a conclusioni “europee” che non tengono conto del sistema americano nel suo insieme.
La posizione difesa da Regazzoni è comunque proficua perché mostra di ave capito una cosa. Dopo e forse con l’11 settembre 2001 è avvenuto un passaggio di fase che ha reso obsolete molte delle più fondamentali categorie politiche del XXº secolo, e questo per un motivo molto semplice. È smottato lo spazio discorsivo sul quale poggiava il costituzionalismo moderno in seguito allo smottamento dello spazio fisico su cui era fondato. In un momento storico in cui spazio territoriale e spazio cibernetico non combaciano più punto per punto e dove i confini tra le nazioni si offuscano, il costituzionalismo opera con grande difficoltà perché la nostra vita è fatta sempre più di nicchie e intersezioni che non rispondono più allo spazio lineare della prima modernità. Lo spazio fisico e cibernetico si stanno sempre di più accartocciando su se stessi formando reticoli e geometrie non lineari. Viviamo l’epoca delle reti non perché ci spediamo la posta elettronica, ma ci spediamo la posta elettronica perché viviamo nell’età delle reti. Dobbiamo ancora capire il nostro tempo, e il costituzionalismo si fonda su principi spaziali che non esistono più.
Dovendo inseguire e stanare il terrorismo jihadista, gli Stati Uniti stanno mappando questo terreno prima e meglio di altri. E dovendo appunto “operare” su questo terreno in modo “efficace” stanno sviluppando una forma istituzionale più legata alla vera mappa cognitiva del nostro tempo. Nel far ciò non adattano Carl Schmitt alla società come se avessero letto Mario Tronti, Massimo Cacciari e Antonio Negri fin dai tempi del liceo. Usano la tradizione pragmatica americana che li porta non verso la democrazia post-liberale ma sempre meglio verso il momento costitutivo della repubblica. Gli Stati Uniti sono in costante rifondazione dal quel fatidico 4 luglio 1776. Sono la più antica repubblica costituzionale del pianeta e sembrano nati ieri. Il segreto sta tutto in una famosa frase di Oliver Wendell Holmes, Jr. "The life of the law has not been logic; the life of the law has been experience." È la necessità di risolvere problemi che porta gli americani a rivedere costantemente l’applicazione normativa dei principi etici alla base della democrazia americana. E oggi che lo stesso concetto di esperienza è in crisi dopo la svolta linguistica, la stessa cosa l’ha ribadita Richard Rorty in un’altra frase famosa. “Take care of democracy, and truth will take care of itself.” Prima viene l’etica democratica, poi a cascata tutto il resto.
Nell’attaccare il network jihadistico di al Qaeda sul suo stesso terreno gli Stati Unti stanno adattando la democrazia al XXIº secolo. Quando questo processo sarà finito, nulla sarà mutato nell’assetto costituzionale americano, solo che nulla sarà più lo stesso. Quello che la sinistra ha da imparare da Obama è che senza questo sforzo di adattamento si rischia di rimanere ancorati alla forma e non alla sostanza delle leggi. Credendo di essere progressisti - difendendo le forme esteriori delle conquiste del secolo scorso - si rischia di diventare conservatori senza saperlo e reazionari senza perché.
È noto come i siriani ritengano l'intera vicenda un loro grande successo diplomatico. Nell’adattare la geometria variabile dell’apparato istituzionale americano alle minacce di stati canaglia di questa fatta Obama sta ridisegnando le linee di forza della sinistra occidentale. Chi crede che presto potremo tornare alle posizioni di sinistra della metà del secolo scorso lasciando che siano solo gli Stati Uniti a dover reggere l’urto del nuovo mondo potrebbe sbagliarsi e di molto: quelle posizioni erano difese dal dispiegamento nucleare di una potenza benevola che nel frattempo avrà cambiato forma, con tutte le conseguenze del caso.
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