L'università italiana è afflitta da molti mali, uno dei quali è il sottofinanziamento. Per risolvere questo problema si è messo mano all’assetto istituzionale degli atenei favorendo chi volesse costituirsi in fondazione per procacciarsi fondi in modo autonomo.

 

Il riassetto ha prodotto un discreto numero di effetti collaterali, spesso non voluti o sottovalutati, soprattutto in campo umanistico. Come noto queste materie trovano difficoltà ad attrarre fondi. La ricerca da esse condotte non ha infatti un fine immediatamente pratico. Quindi, per sopravvivere, queste materie sono state costrette a ricalibrare le proprie aspettative di sviluppo per confluire in contenitori la cui sola funzione è quella del risparmio budgettario.

Sono nati quindi intrecci fra le discipline volti a usare gli stessi docenti in campi diversi. Così si possono assumere studiosi per fare ricerca in un campo e insegnare in un altro, e questo rivolgendosi a studenti che magari perseguono diplomi in campi ancora diversi. Se questo è il trend, nessuno si dovrebbe stupire se nel medio periodo si decidesse di togliere i fondi di ricerca alla materie umanistiche per motivi di degenerazione disciplinare. Che ricerca può fare uno studioso la cui didattica va in verso e la cui ricerca in un altro? Ma qual è il problema che un simile «accorpamento per divaricazione» cercava di risolvere?

1. Il problema. Il problema pare ovvio, ma non lo è. Diminuendo o scomparendo i fondi del finanziamento pubblico ordinari, non si raccolgono fondi privati sufficienti a mantenere intatto il catalogo di corsi umanistici. Il vero problema è però questo: pagando gli stessi stipendi a tutti i docenti in maniera eguale a prescindere dalla disciplina insegnata, e presupponendo che ogni docente - ogni singolo docente in Italia - faccia ricerca, nasce la necessità di tagliare i fondi alle umanistiche per liberare risorse da destinarsi a settori più strategici della ricerca. I soldi per tenere tutto com'era non ci sono più. Per risolvere questo problema basterebbe pagare per fasce differenziate i docenti a seconda della collocazione della materia (chi fa ricerca sul cancro in Lombardia, dove il costo della vita è altissimo, non dovrebbe prendere lo stesso stipendio di chi insegna latino a Catania, dove il costo della vita è bassissimo) e ammettere che nelle materie umanistiche solo pochi docenti fanno veramente ricerca. La maggioranza fa solo didattica. Ovviamente questo in Italia non si può fare perché lederebbe presunti diritti inalienabili sanciti dallo Statuto dei lavoratori, e tanto meno si può fare la cosa ancora più ovvia: pagare di più chi è più bravo. Allora ci si è inventati una soluzione all’italiana per cercare di arrivare allo stesso risultato senza dichiararlo. Ci si impiegherà più tempo, ma si eviteranno le tensioni derivanti dalla disapplicazione dello Statuto, un totem ormai inviolabile.

2. La soluzione adottata. Per distribuire meglio i pochi fondi destinati alle materie umanistiche si sono ridisegnati i settori disciplinari sovrapponendo le materie apparentemente sovrapponibili in modo che i docenti un tempo impegnati in una Facoltà d’ateneo potessero insegnare in tutto l’ateneo evitando la decuplicazione delle cattedre. Poi si è provveduto a creare un organismo ministeriale per la valutazione della ricerca in modo da convogliare le risorse verso i docenti più produttivi. È nato così l'ANVUR, organismo messo in piedi dal ministro Mussi e confermato dal suo successore Gelmini. Con il tempo, la ricomposizione del corpo accademico e la differenziazione degli incentivi alla ricerca dovrebbero portare allo stesso punto dove porterebbe la strada più breve del riordino contrattuale, ma che di fatto è impercorribile in Italia.

3. La complicazione. Dovendo però prendere la strada più lunga sono nate delle complicazioni. Alla prima ho già accennato. Un professore assunto per fare una ricerca di relazioni internazionali non ha il background per insegnare storia, magari in inglese a studenti che perseguono un diploma in lingue moderne. Il risultato è l’impostura all’ennesima potenza. Non è neppure chiaro che tipo di studenti dottorali possa formare un simile annacquamento delle competenze disciplinari. Se il trend è questo, in futuro insegneranno a lingue moderne (o come si vuole chiamare quest’area del sapere) professori formati sull’inglese maccheronico di chi si arrabatta ad insegnare in una disciplina diversa dalla sua. O peggio, studiosi magari serissimi negli intenti che scambiano relazioni internazionali per storia, o storia per relazioni internazionali, magari appresi in un inglese maccheronico. 

Se questo non bastasse, il tentativo maldestro di dare un numero al coefficiente individuale di ricerca, in modo da emulare l’impact factor che designa in termini inequivoci il valore di uno scienziato, ha portato a risultati perniciosi in campo umanistico. Per conferire questi numeri si sono contate le riviste scientifiche di ogni settore, e chiunque pubblichi in esse ha un punteggio uguale, a prescindere da quello che scrive. Si tratta di una perfetta follia perché non tute le riviste scientifiche del campo umanistico giacciono sullo stesso piano. Scrivere un articolo per una rivista seria americana comporta riscritture e mesi di attesa. Non può valere lo stesso punteggio di un articolo pubblicato su di una rivista italiana fondata ad hoc da un gruppo di docenti per mutuo soccorso in area ANVUR.

Una monografia non può valere lo stesso punteggio di tre recensioni, soprattutto se pubblicata all’estero presso una University Press degna di questo nome. Che non equivale a pubblicare i propri brogliacci a pagamento in case editrici locate sì all’estero, ma che vendono le monografie di chi le autofinanzia a prezzi iperbolici perché sono a tutti gli effetti fuori mercato. Come si fa poi a creare un sistema per cui se un tizio pubblica 4 libri in un anno è bravo quando è materialmente impossibile, salvo pubblicare il contenuto di un cassetto? Qualcuno si dovrebbe pur prendere la briga di leggerli questi libri. Ma anche questo in Italia non si può fare, come una serie infinita di ricorsi al TAR dimostra. Ho scritto due libri in un anno, tu un libro in un anno, sono più bravo io anche se scrivo corbellerie di cui mi dovrei vergognare. E si chiama merito. 2>1. Fine della fiera.

Le materie umanistiche sono un problema in tutto il mondo. In pochi capiscono quanto indispensabile siano queste materie in un’epoca in cui le reti telematiche moltiplicano all’infinito la necessità di produrre contenuti. Ma l’Italia, per la forma sua propria, non è purtroppo attrezzata a risolvere questo problema. Per stabilire un principio che nei paesi sviluppati è lapalissiano, in Italia si è dovuto attendere il terzo grado di giudizio.

Eppure è evidente che nelle università migliori vanno ammessi gli studenti migliori, e che per stabilire chi sia più bravo occorre mettere in atto degli esami di ammissione. Come è evidente che esistono università migliori di altre, e che solo nelle migliori si fa ricerca.

Il problema vero è che se non si mette subito mano alla macchina impazzita che sta complicano la crisi dell’università italiana, il rischio sarà quello di produrre altre macerie sulla pelle di chi si iscrive all’università con la ragionevole aspettativa di apprendere qualcosa di utile per la vita. Non ci dobbiamo quindi stupire se gli studenti sempre di più prendono la strada per l’estero, spesso per non tornare mai più.