Tramontato il sogno americano di una leadership mondiale solitaria, nelle relazioni tra Usa e Russia, così come nelle tensioni geopolitiche latenti in Asia, Medioriente e Sudamerica, viviamo una situazione di “anarchia istituzionalizzata” che aumenta le occasioni di confronto-scontro.
Se si dà ascolto ai principali media mondiali, siamo ripiombati nel pieno di una nuova Guerra Fredda. Russia e Stati Uniti hanno ridotto al minimo essenziale le loro relazioni diplomatiche, meno di un decennio fa ancora assai promettenti, e ora “dialogano” a colpi di sanzioni economiche, attacchi informatici, escalation d’iniziative militari (esercitazioni via via più massicce e numerose, schieramento di sistemi di missili e anti-missili sempre nuovi, frequenti sconfinamenti aereo-navali), preparazione di massicce difese civili di emergenza (ben 40 milioni di Russi coinvolti di recente), fino alle minacce esplicite (per ora solo di cyber-attacchi americani) che non lasciano presagire nulla di buono. Senza cadere nella tentazione di tracciare paralleli - che speriamo ovviamente inverosimili - con la situazione che precedette i due conflitti mondiali del Novecento, è evidente che nelle relazioni internazionali è calata una cappa di piombo molto simile a quella dei peggiori momenti dei rapporti Est-Ovest tra gli anni 50 e 80 del secolo scorso.
Il più pericoloso focolaio di tensione è nel Medio Oriente allargato - dalle interminabili guerre civili in Siria, Libia e Yemen alla lotta contro il Califfato, che divide invece di unire quanti gli si oppongono, e contro il terrorismo che l’Isis ha generato esportandolo nell’intero Occidente -, ma anche l’Ucraina e il conflitto a bassa intensità che tuttora vi si combatte, unito al crescente nervosismo che corre tra Nato e Russia, costituiscono un serio fattore di divisione. Se poi si allarga l’orizzonte all’Asia, anche qui le tensioni latenti sono assai diffuse: dall’eterna controversia tra India e Pakistan, dove entrambi i Paesi possiedono oltre un centinaio di testate atomiche ciascuno ma con dottrine d’impiego molto rozze e rischiose, fino ai tanti contenziosi che contrappongono la Cina a quasi tutti i suoi vicini, dal Giappone a vari membri dell’Asean, ai quali Pechino contende il controllo del Mar Cinese meridionale, probabilmente molto ricco d’idrocarburi, il cui totale possesso le garantirebbe un enorme potere di ricatto nei confronti di Tokyo, Seul e Taipei, poiché in quel braccio di mare transita gran parte degli scambi commerciali ed energetici di tutto l’Estremo Oriente.
Dove affonda le sue radici questa crisi diffusa? Negli strascichi della fallita ambizione degli Stati Uniti, seriamente coltivata per quasi un ventennio a cavallo del cambio di secolo, di essere l’unica superpotenza mondiale rimasta. La fine della Guerra Fredda classica e la dissoluzione dell’Unione Sovietica l’avevano infatti illusa di poter ambire al ruolo di controllore-regolatore delle dinamiche politico-economiche dell’intero Pianeta, con il XXI secolo destinato a diventare il “secolo americano” grazie alla possibilità di gestirne l’evoluzione in modo unilaterale. In quest’ottica, Samuel Huntington, fondatore del celebre periodico Foreign Policy, nel marzo 1999 aveva scritto sulla sua rivista un saggio dal titolo eloquente: “La superpotenza solitaria”, in cui delineava una struttura piramidale, con alcune potenze regionali che avrebbero “aiutato” il leader supremo - ovviamente gli Usa - a gestire l’ordine internazionale, ricevendo in cambio il controllo di aree di pertinenza esclusiva (l’Asia orientale alla Cina, quella centrale alla Russia, la meridionale all’India, l’Europa alla Germania, in parziale condominio con la Francia, potenza nucleare, il Sudamerica al Brasile, l’Africa al Sudafrica e il Medio Oriente all’Arabia Saudita). Ma - riconosceva Huntington, delineando una sorta di “Risiko” mondiale - un’altra fascia sottostante di Paesi “sfidanti”, per quanto alcuni amici o addirittura alleati degli Usa, avrebbe cercato di contrastare questa spartizione in nome dei propri supremi interessi nazionali: il Giappone contro la Cina, il Pakistan contro l’India, l’Iran contro l’Arabia Saudita, l’Argentina contro il Brasile e la Nigeria, benché fisicamente assai distante, contro il Sudafrica. Ciò è puntualmente avvenuto, iniettando già in nuce nel sistema elementi di forte instabilità, in grado di minare il dominio incontrastato della superpotenza solitaria.
La grande crisi economico-finanziaria mondiale iniziata nel 2008 - che ha colpito a fondo soprattutto l’Occidente causando, tra i vari effetti negativi, ulteriori tagli diffusi dei bilanci militari - insieme al prepotente sviluppo economico-strategico della Cina, ha inferto un colpo decisivo a questo sogno. È iniziata così una transizione assai più rapida di ogni previsione verso un mondo multipolare, dove Washington mantiene una superiorità politico-strategica evidente ma, invece di calare dall’alto, in modo quasi “feudale”, l’investitura geopolitica ai Paesi prescelti, è costretta a concertare la sua azione non solo con gli alleati, ma anche con i potenziali partner-rivali: dalla Cina (non a caso identificata come il probabile sfidante principale alla propria leadership, che ha determinato l’epocale riorientamento dell’intera politica estera Usa all’insegna del “pivot to Asia” deciso dal presidente Obama nel 2009), alla Russia (alla quale però Washington rifiuta tuttora di riconoscere un rango più rilevante di quello di potenza regionale, malgrado abbia conservato un arsenale nucleare paragonabile a quello americano sul piano quantitativo e qualitativo, accelerandone il conseguente riarmo convenzionale e le recenti proiezioni di potenza in Medio Oriente, dalla Siria all’Iran e ora all’Egitto). Non va inoltre scordata l’India, che punta a ottenere in Asia uno status almeno pari a quello della Cina, ritenuta la rivale più pericolosa su scala continentale, giocando cinicamente su più tavoli, puntando cioè a un’alleanza politica sempre più stretta con Washington, ma continuando ad acquistare armamenti soprattutto da Mosca, che pure ha stretto un legame economico e strategico assai forte con la Cina, più per necessità contingenti (il Cremlino si è sentito spinto nelle braccia cinesi dal rifiuto occidentale, giudicato miope e inspiegabile, di riconoscere i suoi interessi e aspirazioni) che per un reale interesse di lungo periodo.
In attesa di trovare un nuovo equilibrio internazionale riconosciuto e accettato da tutti i principali protagonisti, questa situazione ha finora soltanto accresciuto la diffusa instabilità. Il perché è facile da comprendere: durante la vera Guerra Fredda i due “Moloch” mondiali, Usa e Urss, pur in forte contrasto tra loro, riconoscevano regole comuni di condotta, rispettavano le proprie sfere d’influenza stabilite a Jalta e sapevano fermarsi in tempo quando i tentativi di “sovversione” reciproca superavano la soglia concordata. Nel suo periodo finale l’antagonismo era stato addirittura congelato di fatto, con i trattati di limitazione degli armamenti nucleari SALT 1 e 2. Oggi, invece, vige una sorta di “anarchia istituzionalizzata” che aumenta le occasioni di confronto-scontro. Putin, ad esempio, nelle scorse settimane ha deciso di bloccare gli accordi di disarmo raggiunti nel 2000 per la distruzione reciproca delle scorte di plutonio destinate a fabbricare armi nucleari. Manca infatti una governance fondata su un codice di comportamento internazionale accettato da tutti i protagonisti. In particolare, non è neppure chiaro quali siano gli attori principali di questo mondo multipolare, che tale codice dovrebbero formulare, rispettare per primi e far applicare ai riottosi sotto le bandiere dell’Onu.
Un ostacolo rilevante risiede nel fatto che alcuni dei personaggi principali sembrano entrare e uscire di scena con troppa rapidità perché si possa concordare un “modus vivendi” generalizzato e valido nel tempo. Un caso esemplare è costituito dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), gruppo di Paesi che appena un decennio fa appariva in crescita politico-economica irresistibile, pronto ad assumersi responsabilità sempre più ampie, fino a presentarsi come alternativa credibile al sistema basato sulle organizzazioni internazionali create e gestite di fatto dall’Occidente (ad esempio, la “Nuova Banca internazionale di sviluppo”, da essi fondata appena due anni or sono con ben 100 miliardi di dollari di capitale per favorire il credito non politicizzato ai Paesi in via di sviluppo, sembrava destinata a mandare rapidamente in pensione la Banca mondiale, che invece gode tuttora di discreta salute) e le cui riunioni biennali erano seguite con interesse e rispetto. Il loro ottavo vertice, tenutosi nei giorni scorsi a Goa, in India, è stato invece sostanzialmente ignorato da tutte le principali fonti d’informazione internazionali: segno che il loro “brillante futuro” probabilmente è già alle spalle. Dando per scontato che Russia e Cina restino potenze tuttora in espansione geo-politica, benché acciaccate da problemi economici rilevanti, il fatto è che soprattutto Brasile e Sudafrica si sono rapidamente eclissati come candidati a Paesi-leader dei rispettivi continenti: il primo travolto da una gravissima crisi economico-istituzionale, il secondo incapace di uscire da una spirale di corruzione-stagnazione che l’ha relegato ai margini di un’Africa in crescita tumultuosa.
Quindi, chi rientra tra i Paesi leader a livello mondiale destinati a guidare un mondo che, prima o poi, dovrebbe diventare realmente multipolare? Un problema rilevante, in questa ricerca, è costituito dal riconoscimento che gli Usa, come indicava Huntington, nonostante tutto intendono ancora concedere, come un antico sovrano feudale, ai partner del “club multipolare”. Ormai è chiaro, però, che la “investitura” americana, da sola, non basta più, mentre è la mancata legittimazione reciproca a costituire il “vulnus” che accentua l’instabilità a livello globale. Con una sommatoria di motivazioni che spingono a coalizzarsi quanti temono il protrarsi della supremazia Usa. Chi ritiene di esser stato danneggiato dagli Stati Uniti sul piano geo-politico (la Russia) o sfidato su quello geo-economico (l’Arabia Saudita per l’immissione sui mercati dello shale oil) o “provocato” su quello religioso (l’intero mondo sunnita per l’accordo firmato dal presidente Obama con l’Iran sciita) o, ancora, di non essere accettato come interlocutore globale “alla pari” (la Cina), ha di fatto concertato un’opposizione crescente alla politica estera americana, percepita in fase d’indebolimento. Ritagliandosi spazi di autonomia di cui difficilmente in futuro gli Usa torneranno a riappropriarsi. La Russia in particolare, destinata nell’ottica americana (almeno fino alla presidenza di Barack Obama) a presidiare solo il suo “estero vicino”, rifiuta questa retrocessione e, forte di un arsenale nucleare e convenzionale di tutto rispetto, ha ripreso a proiettare la propria ritrovata forza strategico-militare in Medio Oriente, mandando nel contempo chiari segnali di voler riallacciare gli antichi legami intessuti dall’Urss in molte aree di “dominio riservato” statunitense (Cuba, Nicaragua, Venezuela, Turchia, Iran, Egitto, Vietnam).
Occorre comunque attendere l’imminente esito delle elezioni presidenziali Usa per capire dove si dirigerà la politica estera americana e, di conseguenza, i precari equilibri internazionali non ancora pienamente multipolari. «Il mondo è cambiato molto durante l’era Obama: il presidente ha dato precedenza alla crisi economica che stava piegando il Paese e questo ha un po’ indebolito la leadership americana nel mondo», ammetteva nei giorni scorsi Noel Lateef, presidente della “Foreign Policy Association” statunitense, a La Stampa. Questi cambiamenti proseguiranno certamente con il futuro inquilino della Casa Bianca. Saranno radicali se vincerà Donald Trump, fautore, se manterrà le promesse formulate nella campagna elettorale, di un ritorno a un isolazionismo molto spinto, all’insegna dell’ “America first” su ogni questione, interna o internazionale. Saranno meno vistosi, in una sorta di “continuità nella diversità”, se prevarrà Hillary Clinton. «Il prossimo presidente degli Stati Uniti deve risolvere alcuni grandi problemi, come la questione dei cambiamenti climatici, i conflitti, ma anche una ripresa economica più inclusiva», spiegava sempre a La Stampa Aldo Civico, consulente della campagna di Obama e ora di Hillary Clinton. La scelta per gli Usa sarà comunque netta: proseguire nella linea della cooperazione e negli sforzi verso il multilateralismo, per quanto complicati dal mancato riconoscimento di vari altri partner. Oppure tornare a decidere da soli, rinnovando il sogno delle scelte unilaterali, di cui non dover rendere conto a nessuno.
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