1. Musharraf ha tentato la sorte, ma ha perso. Dopo quasi cinque anni di esilio in Inghilterra, l’ex generale ed ex presidente pakistano, Pervez Musharraf, ha fatto rientro a Islamabad e lì è stato posto agli arresti domiciliari. Da tempo l’uomo di Bush in Pakistan meditava un rientro in patria. Voleva approfittare delle elezioni parlamentari di maggio per riconquistare il potere. Sperava in un nuovo appoggio della piazza e soprattutto delle Forze armate. 

 

La biografia di Musharraf sembra quella di un protagonista di un romanzo francese dell’Ottocento. Umile nelle origini, veloce nello scalare la china militare, era generale a soli 44 anni, per poi, tramite golpe, assumere il controllo del Paese. Perdendo tutto in un colpo solo. Musharraf si è giocato il suo intero patrimonio di potere alla roulette. Ha puntato sul rosso, è uscito il nero.

I giudici della Corte suprema pakistana hanno stabilito per lui gli arresti domiciliari preventivi, per una durata di due settimane, in attesa di farlo comparire in un’aula di tribunale. L’ex generale è coinvolto in diverse inchieste, tra cui quella relativa all’esautorazione dei membri della stessa alta corte, nel 2007, quando era ancora al potere. Formalmente potrebbe essere accusato di alto tradimento. D’altra parte, la posizione sua e delle istituzioni che ora lo vogliono al banco degli imputati è ambigua e non del tutto legittima. Musharraf si era proclamato presidente con un colpo di Stato nel 1999 e al tempo nessuno dei magistrati osò contraddirlo. L’alleanza si sgretolò negli anni successivi. Oggi siamo alla resa dei conti.

La permanenza di Musharraf al vertice delle istituzioni di Islamabad riuscì grazie all’alleanza con gli Stati Uniti di George Bush. Subito dopo l’11 settembre 2001 e con l’inizio della guerra in Afghanistan, Washington era alla ricerca di un alleato – uno qualsiasi – nell’area. Musharraf offrì il suo appoggio strategico, militare e geografico.

2. Dal canto suo, il Pakistan, giovane potenza nucleare, era alla ricerca di visibilità internazionale. Fremeva per mostrare i muscoli all’India, suo tradizionale avversario nella regione. Un canale di dialogo e cooperazione con gli Usa tornò al caso di Musharraf. Questi prometteva il supporto delle sue Forze armate nella lotta contro il talebani e al-Qaeda, oltreché la possibilità per i contingenti di Isaf e Nato di attraversare indisturbati il territorio pakistano e da lì raggiungere l’Afghanistan. Il tutto in cambio di tanti soldi. Tutta la vicenda trova le sue spiegazioni proprio in quei calcoli opportunistici.

Washington aveva fretta di vendicare Ground Zero. Non calcolò quindi le ripercussioni e gli effetti collaterali che sarebbero montati da un’alleanza con una dittatura militare, un Paese economicamente arretrato e insieme un nido del fanatismo islamico, governato da un establishment notoriamente corrotto. Era tutto questo il Pakistan con cui Bush prese accordi.

La Casa Bianca volle scommettere su Musharraf. Quell’uomo venuto dall’esercito – un esercito strutturato ancora alla maniera anglosassone – sembrava fare al caso suo. Molti analisti si spinsero a mettere sullo stesso piano il generale di Islamabad con Atatürk. Lo vedevano come il grande legislatore dell’Asia centro-meridionale.

La miopia, si sa, è stata uno dei più grandi errori che ha portato all’inconcludenza dell’intervento in Afghanistan.

Il continuo versamento di miliardi di dollari nelle casse del Pakistan ha alimentato la corruzione e l’arricchimento personale da parte della classe dirigente di questo Paese. Molti dei finanziamenti Usa sono stati dirottati o nel conflitto Pakistan-India, in Kashmir permane un indecifrabile livello di alta tensione, o peggio ancora nelle casse dei servizi di intelligence pakistani, l’Isi, che è vicino alla lotta talebana.

Musharraf non si pose mai di traverso al caos del suo Paese. Anzi, nel momento in cui le istituzioni laiche, non militari, e tecnicamente democratiche, quali la Corte suprema, cercavano di sbloccare la situazione, lui fece pesare il proprio status di presidente e comandante supremo. Nel frattempo, un attentato a Rawalpindi uccideva la sua rivale politica più popolare, Benazir Bhutto. La donna, che aveva affascinato tanti dei leader occidentali, per quanto non meno corrotta di Musharraf, cadeva vittima di un attacco qaedista. Episodio nel quale l’Isi e forse lo stesso presidente di allora erano in qualche maniera collusi. Era la fine del 2007. Tempo pochi mesi e questo affastellarsi di esagerazioni portarono Musharraf all’esautoramento.

Cinque anni di esilio, durante i quali da generale pluridecorato, Musharraf è passato a essere tessitore in backstage della politica pakistana. Viveva a Birmingham, ma spesso si proiettava nei Paesi del Golfo, quasi a voler scrutare la sua Patria da dietro l’angolo. L’approdo a Islamabad, però, sembra aver decretato la fine della rincorsa al potere.

3. Con l’arresto dell’ex presidente, il Pakistan non ha risolto alcuno dei suoi problemi. Forse ha solo innescato una catena di vendette personali, tra i giudici e chi li ha decapitati.  I legami tra l’esercito e i fondamentalisti non si sono interrotti. E tanto meno il rischio di una ripresa del potere da parte dei militari. L’attuale Capo di Stato Maggiore delle Difesa, il generale Ashfaq Kayani, ha sempre smentito questo pericolo. Per quanto egli stesso, già fedelissimo di Musharraf, non possa dirsi immune da dalle ambizioni politiche in uniforme. Anche il flusso di dollari dagli Usa è proseguito. Quasi a dimostrare l’ostinazione di Washington a voler supportare un alleato strutturalmente inaffidabile.

Il problema è a monte. Ammesso e non concesso che una qualche Forza armata possa traghettare verso la stabilità un Paese in via di sviluppo, quello pakistano non ne è grado. Musharraf ha rappresentato la quintessenza di una casta militare avida di potere, ma incapace di governare. Una casta militare ancora forte in Asia. Oggi si celebra il requiem politico di un suo comandante.