E, in effetti, fino a qualche mese fa, quello che i mercati parevano chiedere all'Italia era il segnale che questa fosse disposta a incamminarsi su una strada diversa dal passato. Da luglio a oggi, abbiamo però accumulato una manovra finta, una manovra vera solo per metà (nel senso che i provvedimenti in materia fiscale e assistenziale sono rimasti indeterminati) e una lettera d'intenti che elude tutte o quasi le questioni spinose (come le pensioni di anzianità, ma non solo). Non c'è dunque da meravigliarsi se la situazione si sia deteriorata e se oggi all'Italia si chieda di più.

È inutile girarci intorno: poiché sul problema di lungo periodo siamo rimasti fermi, su quello di breve abbiamo fatto svariati passi indietro.

Veniamo alle prospettive immediate. Come avevamo scritto nella nota precedente, l'ipotesi che la fiducia di metà ottobre bastasse a fare durare il governo anche solo fino alla prossima primavera era improbabile. I fatti lo hanno confermato.

Non per questo è chiaro che cosa potrebbe accadere da ora in poi. Che questo governo abbia la forza di rispondere credibilmente a quelle 39 domande è da escludere, altrimenti non sarebbe caduto; che ci sia in questo Parlamento un'altra maggioranza capace di farlo è da escludere egualmente, altrimenti ieri Berlusconi si sarebbe dimesso con effetto immediato.

Resta l'ipotesi di un governo tecnico, o istituzionale o di larghe intese che dir si voglia, e quella delle elezioni.

L'Italia e la sua classe dirigente - non solo politica - hanno però di fronte un problema che è per sua natura politico: affrontare il tema del debito e della crescita significa riscrivere il patto sociale, e quello fra generazioni. Il che pone (almeno) tre domande: può questo compito essere delegato a un tecnico? Può sottrarvisi la politica? Possiamo uscire dai guai, se non abbiamo nemmeno il coraggio di guardarli in faccia?