Le primarie del Partito Democratico lasceranno un segno. Ma per centinaia di migliaia di cittadini quel segno non sarà un voto posto nell’urna, ma la ferita provocata dall’allontanamento dal seggio. ’Lei non può votare’. ’La Sua assenza al primo turno non è giustificata’. ’Non La riconosciamo come elettore del centrosinistra’.

Respingimento, mancato riconoscimento, identità negata.

Riguardo a questi tre concetti l’atteggiamento di sinistra è sempre stato inclusivo. L’identità è aperta, non esclude, e soprattutto non respinge. Invece no, alle primarie il centrosinistra ha serrato i ranghi e si è chiuso in un arrocco identitario per paura che collaborazionisti interni aprissero le porte della cittadella ’alla destra’.

Non sapremmo dire se Renzi fosse o non fosse ’di destra’ e francamente non ci pare il dato importante. Viene invece da chiedersi: cos’è il voto per chi ha architettato il regolamento delle primarie? Che cosa esprime? Chi lo può dare? Chi ha diritto di cittadinanza nel Partito Democratico? La domanda non è peregrina, perché stiamo parlando di un partito che programmaticamente vuole essere un partito ’democratico’, non un una fazione chiusa votata alla difesa degli interessi di una parte contro le altre. L’obiettivo di un partito democratico dovrebbe quindi essere quello di raggiungere il 100% dei voti, obiettivo empiricamente irraggiungibile e politicamente dubbio, ma che tuttavia deve poter rimanere normativo sul piano teorico. Ovvero, se non è questo l’obiettivo, se un partito non intende includere chiunque dichiari di voler essere incluso, il partito sarà solo uno strumento volto alla difesa dei legittimi interessi di una parte, ma non sarà un partito democratico - a meno che per democratico non si intenda che accetta le regole del gioco, ma qui torniamo a bomba. Che cos’è un voto in democrazia?

1. Scriveva John Dewey che la democrazia non è che un metodo. Il metodo che consente di pervenire a quello che Rosseau designò con il termine di volontà popolare. Tutto qui. Il voto non è dunque un mezzo del processo democratico, ma il fine stesso. Raggiunto questo fine, parte il processo di governo, che come fine avrà di nuovo il voto. È solo designando il governo come un mezzo transeunte che gente come Dewey intendeva evitare che la volontà popolare divenisse la scusa con cui una fazione si arrocca il diritto di governare il popolo in virtù della propria asserita superiorità morale. 

Di qui la centralità del ’conoscere per deliberare’ di enaudiana memoria.

L’elettorato, una volta dato il voto, ha il dovere civico di tenersi informato in vista delle prossime elezioni, che esprimeranno un giudizio sia sull’operato del governo che sulla direzione da prendere alla luce della contingenza. La democrazia liberale si distingue dalle altre forme di democrazia per l’assenza di pregiudiziali al voto. Si vota sui fatti pregressi e sui fatti a venire. Non sull’identità di categorie presupposte che vanno sempre affermate contro qualcuno o qualcosa (la borghesia, la destra, il capitalismo, il berlusconismo, e via discorrendo).

2. È solo considerando il voto come fine e non come mezzo che in democrazia liberale si ottiene il consenso del corpo elettorale. Facendo il contrario, usando il voto come mezzo per ottenere il potere, si rischia di ridurre la democrazia ai mezzi necessari per ottenere il consenso. Trasformando le campagne elettorali in parate d’identità si raccoglie consenso su cose che non riguardano i fatti pregressi e i fatti a venire. Il consenso viene deviato su di un piano simbolico che presuppone conflitti insanabili e divergenze invalicabili.

Il primo nemico della democrazia liberale è dunque lo spettacolo delle identità che non si mescolano e non si confondono. In Italia questo spettacolo di carri allegorici ha prodotto la nascita di organismi rappresentativi dotati di vita propria e indipendente. È un po’ come se la società italiana non fosse un corpo sociale unificato ma una gigantomachia di corpi politici distinti in lotta fra loro. La storia insegna che di fatto è sempre stato così, che gli italiani si sono sempre divisi fra guelfi e ghibellini, Montecchi e Capuleti. Ma la questione nazionale si pone proprio in ragione di un superamento di questa condizione conflittuale, non per il suo mantenimento. Altrimenti a non funzionare è il processo democratico, che diventa uno spettacolo identitario messo in scena per esaltare le piccole differenze che danno l’illusione alle parti di essere uniche e irriducibili fra di loro.

3. La forza della democrazia liberale sta nello scindere il voto dall’identità e di renderlo la conseguenza di un giudizio, che prima ancora di essere politico vuole essere ragionevole. Non razionale o raziocinate, ma ragionevole, ossia aperto al discorso dell’altro in ragione della propria fallibilità e non deciso a priori e su premesse fondanti. Quindi il voto non è il giudizio dato sulla capacità di un partito o una persona di aderire ad una identità precostituita e immutabile (’la sinistra’, ’la destra’, ecc.), ma il giudizio dato a ragion veduta sull’operato di quel partito o di quella persona in vista della necessità di risolvere problemi impellenti.

In conclusione, alla luce di quanto detto, respingere ai seggi elettori che si dichiarano di centrosinistra è chiudere l’identità in un fortino e sperare che i segni esteriori dell’identità manifesta consentano agli assediati di riconoscere l’intruso ed espellerlo prima che avveleni i pozzi.

Esiste una orrenda malattia della psiche profonda che talvolta pare contagiare anche i corpi sociali. Si chiama dismorfia corporea. Il soggetto non vede aderire il proprio corpo all’immagine che ha di sé e per correggere la dismorfia procede all’amputazione di ciò che non riconosce come parte del proprio corpo. Alcuni soggetti non riconoscono le proprie gambe, le dita dei piedi, delle mani. Una parte del centrosinistra pare non voler riconoscere i valori espressi da Renzi alle primarie. Rimane ora da vedere se il nuovo leader del centrosinistra si comporterà in modo dismorfico amputando il problema, o se non inizierà invece un dialogo che porti al riconoscimento di quelle istanze come proprie almeno in parte.

Ma prima ancora il dibattito che dovrebbe aprirsi, e non solo nel centrosinistra, è sulla natura stessa della nostra democrazia e su i suoi fini. Non c’è più elezione - nazionale, regionale, o solo primaria - che non porti con se il tentativo di predeterminarne il risultato attraverso la riscrittura delle regole. In una democrazia fondata sulla centralità del voto, queste regole dovrebbero bensì essere messe in una teca, al di sopra delle parti, alla quale si accede di rado e comune accordo, ma sempre molto tempo prima dell’apertura delle urne. In questa direzione va anche il Codice di buona condotta elettorale redatto dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto. Sarebbe forse utile tenerne conto in futuro e non giungere all’ultimo momento alla stesura di leggi e norme sempre più bizzarre ed estemporanee.

Ne va della tenuta stessa della nostra forma di democrazia.