Il prossimo 22 maggio il Regno Unito sarà chiamato a rinnovare i propri 73 rappresentanti presso il Parlamento europeo. Salvo l’anticipo di tre giorni rispetto al resto d’Europa – i risultati delle urne britanniche saranno comunque resi noti la sera di domenica 25 – tra Londra e le capitali continentali le differenze sull’appuntamento elettorale sono esigue, sia in termini pratici sia in termini politici e di percezione. Quello della prossima settimana sarà infatti una sorta di redde rationem per tutta l’Unione europea. Mai un appuntamento elettorale comunitario era stato così avvolto da pregiudizi, preoccupazioni, luoghi comuni.

1. La Gran Bretagna manda a Strasburgo lo stesso numero di parlamentari dell’Italia. Il sistema elettorale è sostanzialmente simile, anche se Londra, per esempio, non applica la soglia di sbarramento del 4% prevista invece in Italia. Tuttavia è riguardo alle elezioni in sé che si colgono i più evidenti parallelismi. L’euroscetticismo ha colpito la vecchia Europa quanto le isole d’oltremanica. Anzi, se osservata con un certo occhio critico, la storia britannica dalla Thatcher in poi porterebbe a pensare che i dubbi sulla fattibilità dell’Unione europea così com’è oggi siano emersi prima nel Regno Unito e solo dopo sbarcati sul continente.

Londra però è sempre stata paradossalmente coerente con se stessa. Furono Castlereagh e Wellington i promotori del congresso di Vienna, nel 1814. I vincitori di Napoleone auspicavano una restaurata concertazione tra stati e nazioni d’Europa. Salvo poi scegliere di lasciar fuori l’Impero britannico dalle diatribe post-feudali e reazionarie del continente. E fu ancora Winston Churchill a proporre un Commonwealth d’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Progetto al quale, ben inteso, Londra sarebbe rimasta volutamente estranea a priori. Al tempo il British Commonwealth era un soggetto internazionale davvero di peso. Insomma, la tradizione vuole che Londra, nel discorso sull’Europa unita, ci metta la teoria, la buona volontà e le idee più visionarie ed emozionali possibili. Ma per la pratica, la Manica resta una lingua di mare non navigabile.

Così, sempre all’insegna della coerenza e del paradosso insieme, la campagna elettorale per le europee che si sta consumando in Gran Bretagna vede tutti gli schieramenti orientati più o meno esplicitamente verso l’euroscetticismo. O l’eurocriticismo, se si vuol essere più sofisti. Non è solo Nigel Farage, dello Ukip, a reagire come un toro nell’arena di fronte alla bandiere dell’Ue. Anche i conservatori di Cameron – sempre più disposto a rinnegare se stesso e a travestirsi da Thatcher, pur di essere confermato alle politiche del prossimo anno – stanno offrendo agli elettori britannici una exit strategy dall’Ue più o meno realizzabile. Vedasi soprattutto la promessa di un referendum “Europa sì – Europa no”, da celebrarsi entro il 2017. Londra sa che sganciandosi da Bruxelles rischia forte. Perché il mercato globale è impietoso con i pesci piccoli. Tuttavia, sembra che a Downing Street la miopia stia avendo la meglio, rispetto a una visione di ampio respiro. Va inoltre aggiunto che i “nazionalisti” di Farage offrono agli elettori una serie di argomentazioni anti-Ue più articolate, rispetto a quanto portato avanti, per esempio, dal Movimento 5 Stelle in Italia, oppure dal Front National in Francia. Ben inteso, con lo Ukip si può non concordare. Bisogna però ammettere che per gli antieuropeisti il Regno Unito resta un terreno fertile, dove i contenuti hanno avuto possibilità di germogliare ormai da decenni. Per questo i Tory hanno fatto di necessità virtù, e invece che contrastare l’antieuropeismo con l’europeismo – tattica sposata sul continente – hanno preso la strada dell’antieuropeismo moderato. In antitesi apparente con l’intransigenza di Farage.

2. Di difficile comprensione resta invece l’atteggiamento del Labour. Gli eredi di Tony Blair sembrano aver abbandonato qualsiasi interesse per Bruxelles. Si sono concentrati, al contrario, sulle concomitanti elezioni regionali. Forse perché Ed Miliband, da poco sostenuto da un guru elettorale d’eccellenza quale David Axelrod, vuole vincere nel 2015. Anche a Londra la Premier League resta più importante della Champions. Fatto sta che nemmeno i laburisti escludono un referendum sull’Ue. Ma da posticipare al 2020.

Gli unici che restano stoicamente entusiasti dell’Europa in Inghilterra sono i lib-dem di Nick Clegg. Pur senza nascondere le perplessità. Solo perché l’Europa è essenziale, non significa che l’Unione europea sia perfetta. Questo è il loro manifesto elettorale. D’altra parte i liberali inglesi sono destinati a raccogliere il 7% dei consensi su base nazionale. Una percentuale che, nel panorama politico inglese, è assai esigua.

La politica militante però non sconfessa l’europeismo che è proprio del pensiero britannico. È nelle librerie italiane in questi giorni l’ultimo libro di Anthony Giddens, “Potente e turbolenta – Quale futuro per l’Europa?” (ed. Il Saggiatore). Il padre della Terza via offre ai lettori una sorta di “istruzioni per l’uso” su come avvicinarsi alla cabina elettorale nei prossimi giorni. I riferimenti a Churchill, emozionali si diceva, non nascondono i punti deboli dell’Ue. L’Europa burocratica di Bruxelles, l’Europa a due velocità, che non riesce a sedare il protagonismo della Germania, appare lontana dalla comunità di destino che i padri fondatori avevano sognato e iniziato a definire ormai sessant’anni fa. Idea non esclusiva di Giddens, va detto: flussi migratori, difesa, politica estera, squilibri interni nella distribuzione di fondi e ricchezze, le falle esaminate dal sociologo inglese sono note. E si sintetizzano in un unico problema: l’assenza di una politica condivisa tra gli Stati membri.

3. Euro, banche, bilanci. Gli spauracchi del poliedrico mondo anti-Ue sono tanti e, tutto sommato, banali. Ma è d’altra parte vero che il percorso di integrazione europea resta tutt’oggi incompleto e rallentato. Giddens, per questo, torna a  ìparlare di federalismo e quindi di ridefinizione del concetto di sovranità. “La maggior parte delle preoccupazioni circa il federalismo riguarda la sua perdita a livello nazionale”, si legge nel libro. “Tuttavia, per avere un senso, la sovranità deve riferirsi a un reale controllo sugli affari della nazione. Non si può cedere qualcosa che in gran parte si è già perduto. Collaborando reciprocamente, gli Stati membri dell’Ue acquistano una maggiore influenza reale nel mondo di quanto potrebbero fare come singoli attori. In altre parole, ciascuno di essi registra un guadagno netto. Questo effetto non si limita a decisioni comunitarie. Grazie al sostegno implicito che deriva dalla loro adesione all’Ue, anche quando agiscono in proprio le singole nazioni hanno più influenza di quella che avrebbero altrimenti”.

È tutto vero, quanto scrive l’autore inglese. Solo una critica: a Bruxelles – ma anche a Roma, Parigi, Berlino – si è consapevoli della urgente necessità di effettuare uno scatto di qualità che le istituzioni comunitarie sembrano non essere in grado di fare. Londra, dal canto suo, insiste nel lanciare proposte e teorie. Senza però mai assumersene la responsabilità fattuale. Da Wellington a Churchill, il Regno Unito ha sempre preferito osservare la sfida continentale. A mo’ di arbitro di tennis, seduto sul suo alto scranno. Oggi però questo ruolo risulta palesemente anacronistico. Ma nemmeno Giddens sembra disposto ad ammetterlo.