I numeri del Super Tuesday 2016 restituiscono un quadro fosco. Hillary vince. Trump vince di più e beneficia della grande partecipazione popolare alle primarie repubblicane.

1. I facili trionfi di Trump sono il risultato di trent'anni di bassa politica repubblicana, da Rush Limbaugh a Newt Gingrich, da Jerry Falwell a Bill O’Reilly, che ha coscientemente preferito il martellamento della propaganda al ragionamento e all’informazione dell’elettorato. Ma sono anche un fenomeno nuovo, che si lega all’impiego superficiale e compulsivo delle nuove tecnologie (Twitter e Facebook) e agli istinti di paura e regressione degli elettori lasciati fuori dalla ripresa economica. Fatto sta che ieri, martedì, sono successe soprattutto due cose: Trump è apparso inarrestabile nella sua cannibalizzazione del GOP, un partito che gli sarebbe quasi estraneo; e Hillary ha contenuto i successi di Sanders al prezzo di una bassa partecipazione, bassa affluenza, basso entusiasmo.

2. Trump ha vinto non solo negli stati del Sud bianco (Tennessee, Alabama, Georgia, Arkansas), ma anche in Virginia, Massachusetts e Vermont. Hillary ha conquistato agilmente tutti gli stati dove sono forti le componenti afroamericana e ispanica (Alabama, Texas, Georgia, Arkansas, Virginia), confermando la drammatica debolezza di Sanders con le minoranze etniche; ma è riuscita a strappare di misura anche il Massachusetts, con una forte valenza simbolica.

3. Dal cuore rurale e suburbano del partito repubblicano soffia un vento di forte isolazionismo: Trump ha criticato seccamente la guerra in Iraq e l’intervento in Libia, mentre parla addirittura favorevolmente di Putin e della necessità di riprendere relazioni con la Russia. Questo sta producendo un trasloco di massa dei neocon in campo democratico, per la prima volta dagli anni Settanta: dopo Podhoretz, ecco la dichiarazione di voto per Hillary di Robert Kagan, quello di Of Paradise and Power. Ma anche Mark Salter, ex capo dello staff del repubblicano John McCain: Trump è un anti-patriota, un violento e un ignorante, ha scritto, e va fermato anche votando la Clinton. A sinistra c'è Sanders, che votò contro la guerra in Iraq e le cui posizioni sono note: Hillary resta dunque l'unico bastione non isolazionista. Ma l'ampiezza del rifiuto del popolo americano al coinvolgimento nelle guerre in Medio Oriente e in altri teatri del mondo dovrà necessariamente essere tenuta presente dalla candidata democratica, se nominata ed eletta. La politica perseguita da Obama in questi anni - aperta e non isolazionista sul piano internazionale, ma anche di rifiuto il coinvolgimento nei conflitti - alla fine rivela molte saggezze e cautele che erano rispettose del sentire comune degli elettori.

4. Trump è uno che cita Mussolini e non ripudia i voti del Ku Klux Klan. Ma Cruz e Rubio sono per questo dei moderati? No. Sono politici che vorrebbero uno shutdown di Planned Parenthood, che non ripudiano il diritto a portare le armi e che nutrono una cieca e ostinata obiezione a ogni allargamento delle tutele sanitarie, tanto da aver messo lo smantellamento di Obamacare in testa ai propri programmi. Sono a destra di Trump su molti fronti, e per contrastarlo hanno impiegato le medesime tattiche di smear and fear, diffamazione e paura, che contestano al milionario newyorkese: Rubio l’altro giorno ha detto che Trump è uno che si bagna i pantaloni, tanto per dire.

5. Il Super Tuesday è stato crudele con Marco Rubio, che ha perso quasi ovunque e ha mancato l’affermazione in Virginia, per lui strategica (32 a 35 per Trump). Il 1° marzo avrebbe potuto essere il trampolino della sua reale alternativa a Trump, il giorno della riscossa emergenziale del candidato istituzionale del GOP. E’ stato invece il giorno della sua crisi. A molti appare come un candidato costruito a tavolino dalle lobby, inautentico e imbellettato. Così si deve accontentare del Minnesota, mentre l’unico risultato di rilievo, nel campo conservatore, è la vittoria di Ted Cruz in Texas. Che pone il candidato Tea Party come il più quotato a lanciare l’ultima, disperata sfida di contenimento a The Donald.

6. Tutto questo significa che i giochi nel partito repubblicano sono chiusi? No. Trump può ancora perdere la nomination, teoricamente. Ma è assai improbabile. Ha in tasca circa 280 delegati (1.237 sono necessari per vincere); è vero che a livello nazionale si ferma al 35% del GOP, ma finché il campo dei suoi oppositori resterà così diviso potrà continuare a strappare Stati e delegati un po’ ovunque. Il 5 marzo si vota in Louisiana (primarie) e nei caucus del Kansas, del Kentucky e del Maine. Poi, in stati numericamente importanti come Michigan, Mississippi, Illinois e soprattutto Florida e Ohio (il 15 marzo). In dieci giorni ne vedremo delle belle.

7. Nel campo democratico, Sanders, pur vincendo in Colorado, Oklahoma, Minnesota e nel “suo” Vermont, resta ben distaccato da Hillary. Bernie ha corso fin qui una brillante e pulita campagna elettorale, fatta di ideali positivi e non di attacchi personali. Il suo resta dunque agli atti come un gioco duro, ma leale. Un altro aspetto per il quale il senatore del Vermont va ammirato. Il nobel Paul Krugman non è il primo degli economisti progressisti che criticano la fallacia e amatorialità del suo programma economico, ma questo non toglie che l'entusiasmo mosso dalla sua candidatura vada politicamente raccolto e considerato. Il Partito Democratico è molto più a sinistra di Hillary. Che dovrà ricordarsene quando sarà (probabilmente) nominata.

8. Last but not least. In campo democratico l'affluenza è molto bassa. Molto. Negli Stati in cui si è votato nel Super Tuesday è crollata del 25% rispetto al 2008. In uno Stato chiave per la sfida futura come la Virginia hanno votato 700mila Democratici contro un milione e centomila Repubblicani: se contiamo che nel 2008 erano quasi un milione di democratici contro 400mila Repubblicani abbiamo un buon quadro della poca partecipazione dei liberal alle elezioni. Un po' è fisiologico, dopo otto anni di presidenza. Ma il basso entusiasmo che suscita l’anziana candidatura di Hillary pone una ipoteca pesante sulla sua corsa elettorale a venire. L’ostinazione che l'ha spinta a correre a tutti i costi e il grande potere sprigionato dalla sua candidatura hanno impedito il sorgere di ogni alternativa in campo democratico, a parte Sanders. È stato un effetto diserbante. Ora il campo è diserbato, e si vede.