1. Di fronte allo scandalo che aveva travolto la Lega, la politica si era solennemente impegnata a prendere provvedimenti risolutivi in tempi brevissimi. Per tenere il fiato sul collo del Parlamento, il Corriere della Sera aveva persino messo sulla propria home page un contatore del tempo trascorso dalla promessa. Trascorsi oltre tre mesi senza che nulla accadesse, il contatore è stato tristemente ritirato. Evidentemente si era trattato di un’altra delle vuote promesse a cui ci ha abituati la politica italiana.
È solo di qualche mese dopo lo scandalo che ha portato alle dimissioni del Governatore del Lazio, e già si annunciano problemi simili in Campania. Di fronte a questo ennesimo scandalo, due editoriali de La Stampa, uno del direttore Mario Calabresi (“Quei miti andati in frantumi”) e l’altro dell’editorialista Franco Bruni (“Federalismo è l'ora di ripensarlo”), hanno gettato un sasso nello stagno, sostenendo che queste vicende dovrebbero indurre a rimettere seriamente in discussione il tortuoso percorso federalista intrapreso dal nostro Paese. Considerazioni molto simili erano state peraltro espresse oltre due anni fa da Giovanni Sartori sul Corriere della Sera in un articolo che aveva fatto molto discutere (“Le incognite del federalismo”).
È comunque possibile leggere queste vicende in un altro modo. Forse le gesta di Fiorito e compagni dimostrano proprio la necessità di intraprendere con più decisione la via del federalismo.
2. Scrive Calabresi: «senza controlli, senza procedure chiare e facilmente verificabili, sprechi e scandali proliferano al centro come in periferia, sono possibili nel Parlamento nazionale come in un Consiglio comunale». Tutto certamente vero: il federalismo non è di per sé sufficiente a impedire il malaffare. Ma questo non pare essere una ragione sufficiente per abbandonarlo, soprattutto se rimaniamo convinti che esso abbia tutta una serie di altri pregi e benefici.
Franco Bruni dubita in realtà proprio della reale consistenza di tali pregi e benefici. Egli muove dall'indubbia considerazione che «la disciplina della finanza locale negli Stati federali è difficile da ottenere». Nel suo articolo, si fa l'esempio di vari Stati federali in cui questa difficoltà si manifesta. Fra di essi, Bruni include naturalmente la Spagna, sostenendo però che «la Catalogna e le altre regioni autonome aggravano il debito pubblico spagnolo».
Ebbene, non si può però non tenere conto di una cosa: come ha dimostrato un'indagine del Ministero dell'economia spagnolo del 2005 (un po' la versione spagnola del Sacco del Nord di Luca Ricolfi), i programmi di redistribuzione del governo centrale fanno sì che la Catalogna ceda ogni anno tra il 6,4% e l'8,7% del suo PIL a vantaggio delle altre Comunità autonome. Questa indagine, purtroppo non più resa pubblica per gli anni successivi, dimostra come una parte significativa del deficit catalano sia dovuta proprio all'applicazione di meccanismi anti-federalisti, ovvero quelli di tassazione e redistribuzione a livello centrale.
Bruni cita poi altri ordinamenti: Argentina, Brasile, Usa, Germania, Cina, Unione Europea. Ma la sua analisi omette il principale esempio di federalismo funzionante, ovvero la Svizzera. La forte frammentazione territoriale unita ad una forte autonomia istituzionale e fiscale sono gli ingredienti di una ricetta riuscita di gestione equilibrata della finanza pubblica, con bassi livelli di deficit, debito e tassazione.
3. Nel prosieguo della sua analisi, Bruni arriva poi a toccare un punto centrale per qualunque riflessione sul federalismo: perché abbia senso, e perché funzioni (come in Svizzera), il federalismo «è un meccanismo che richiede vincoli al bilancio pubblico degli enti locali, che altrimenti possono sprecare senza alzare le tasse». Egli fa quindi la domanda da un milione di dollari: «si riescono davvero a imporre questi vincoli?».
La domanda non può essere elusa: in effetti, l'attuale assetto della finanza pubblica locale sembra studiato apposta per indurre amministratori locali all’irresponsabilità, slegando quasi completamente il potere di imposizione fiscale dal potere di spesa, e quindi non imponendo ad amministrazioni che spendono molto di essere chiamate a risponderne in sede elettorale. In altri termini, non vi è obbligo di far fronte alle spese tramite una tassazione elevata dei propri cittadini, che avrebbe ripercussioni negative nelle urne; ma è possibile far pagare il conto ai cittadini di altre regioni, tramite i meccanismi redistributivi del governo centrale.
Da questo punto di vista, i tanti casi di Catania, Taranto, Roma raccontati dalle cronache, ovvero di città sostanzialmente fallite e salvate dal governo centrale con risorse provenienti dalla tassazione di tutti i cittadini italiani, non sono una sorpresa, ma l'inevitabile conseguenza degli incentivi creati da una legislazione poco accorta.
Tuttavia è bene notare che questa situazione è in realtà frutto di una scelta in aperto contrasto con i principi federalisti, e non una conseguenza della loro applicazione, come sostiene Bruni. Il salvataggio con risorse della fiscalità generale, la sostanziale separazione del potere di spesa da quello di imposizione fiscale sono decisioni che contraddicono in radice qualunque progetto federalista, pertanto sembra ingeneroso nei confronti del federalismo addebitare ad esso colpe che in realtà discendono da una sua negazione.
4. Ogni principio, per poter essere valutato correttamente, richiede di esser preso sul serio. Il federalismo, in Italia, non è stato in alcun modo preso sul serio. Allo stesso modo, a livello globale, non è stato preso sul serio il mercato in ambito finanziario, ed in effetti, proprio come accade col federalismo, vengono spesso addebitate al mercato colpe che in realtà derivano da un'assenza di mercato.
Si può e si deve naturalmente discutere se il federalismo o il libero mercato siano aspirazioni in sé desiderabili, e si può tranquillamente sostenere che non lo siano o che comunque non funzionino. Ma ciò che non pare opportuno fare è basare l'affermazione che il federalismo o il libero mercato non funzionano in ragione di scandali e malversazioni che in realtà con il federalismo o il libero mercato non hanno davvero nulla a che fare.
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