Ancor oggi, quando gli americani minacciano un intervento armato, c’è chi improvvisamente riscopre il proprio pacifismo (altrimenti perfettamente inerte, fino al momento in cui non si muovono gli americani) e chi, dall’antro della propria poltrona in seta damascata, fa esercizio di sano realismo politico.

La domanda che mi pongo è questa: si può ancora parlare di realismo in politica estera senza sentirsi un po’ a disagio? Il contesto in cui sorge la domanda è quello dell’interconnessione globale in cui viviamo. In un mondo dove tutto è interconnesso – comunicazione, risorse, economia – è ancora possibile per uno stato mantenere una posizione realista in politica estera senza compromettere la propria integrità morale? Certo che può, basta che non sia uno stato di diritto fondato sulla rappresentanza popolare. È quindi possibile per una democrazia liberale dire che quanto avviene in Siria è un problema dei siriani e che ogni intervento armato, non solo è inutile, ma è dannoso? Si può, a patto che si faccia comunque qualcosa per fermare la violenza. Quello che una democrazia liberale non si può permettere è di non far nulla. Perché non far nulla in un mondo interconnesso è godere delle proprie rendite di posizione senza curarsi delle origini di quelle rendite. Non agire in un mondo interconnesso non è pensabile. Perché se le nazioni occidentali hanno saputo fare i conti con la storia (cessando di essere realisti al proprio interno e fra loro), non l'hanno ancora fatto con il resto del mondo. Impiegare le risorse del pianeta ha senso per una democrazia (che non voglia vergognarsi di sé) solo se si adopera perché la violenza politica cessi ovunque come è cessata in Occidente. Non si può pensare di vivere in pace in una fortezza tecnologica quando fuori di essa chi vende a noi le risorse del proprio paese usa il gas nervino contro il suo popolo. È immorale.

1. Per realismo politico si intende quella scuola di pensiero politologico che vede nella politica di potenza il solo obiettivo dell’azione di uno stato. In questo contesto discorsivo, la sicurezza nazionale è una categoria assoluta che non consente alcuna mediazione (Machiavelli). Tutta la popolazione è assoggettata al bene comune (Hobbes), e le relazioni fra stati sono simili alle relazioni fra gli uomini nello stato di natura. L'orizzonte di questa teoria è l'equilibrio di forza, lo stallo fra le potenze che mantiene la pace fra le nazioni.

A questa posizione si è progressivamente opposto l'idealismo cosmopolita che mira alla pace perpetua fra le nazioni. Questa posizione, a partire da Kant, mira a costruire un mondo di piccoli stati federati in cui sia possibile istituire parlamenti e tribunali comuni, in grado di risolvere sul nascere ogni potenziale conflitto armato.

Durante la Guerra Fredda (guerra d'equilibrio fra le potenze distribuite in blocchi), l'Occidente sposò la tesi cosmopolitica implementando l'organismo cosmopolitico immaginato da Kant (già fallito con il fallimento della Società delle nazioni), ossia creando le Nazioni Unite. Il fatto però che entrassero a farne parte stati totalitari e non cosmopolitici fu foriero di non pochi fallimenti, non ultimo la condizione di catalessi in cui l’Onu oggi versa.

La visione cosmopolitica è però riuscita a superare il fallimento delle Nazioni Unite portando avanti un discorso sui diritti civili che superasse l'alveo nazionale in cui era nato in Occidente. La storia recente, a partire dalla caduta del muro di Berlino, è la storia del tentativo di rianimare l'ideale cosmopolitico approfittando della globalizzazione del sistema economico capitalista. Inevitabilmente, le contraddizioni del capitalismo si sono riversate sul cosmopolitismo dei diritti umani, creando asimmetrie e paradossi. Nel caso in questione, per lungo tempo si è detto che nessuno interveniva in Siria perché in quel paese non c'è petrolio a sufficienza da garantire un ritorno economico all'applicazione dei diritti umani. Gli ultimi fatti hanno dato torto a questa tesi.

2. Il cosmopolitismo odierno intende raddrizzare l'asimmetria che esisterebbe fra interessi e ideali. Visto che al nostro interno ci basiamo su ideali di libertà che presuppongono il rispetto dei diritti umani oltre che dei diritti civili degli individui, quando agiamo in politica estera cerchiamo di promuovere il godimento di quegli stessi diritti, che reputiamo universali. Non farlo sarebbe ipocrita, perché ci consentirebbe di fare affari con chi li vìola senza sentirci minimamente coinvolti. La posizione realista e la natura democratica delle nostre società fanno a pugni. Chi dice che una democrazia può fare affari con chiunque, anche con chi non rispetta i diritti umani e civili del proprio popolo, propone qualcosa che riduce all'assurdo le fondamenta stesse della democrazia liberale.

Si dirà che nelle relazioni internazionali l'Occidente ha sempre compromesso i propri valori per interesse: condanna la Siria ma non l'Arabia Saudita perché i sauditi al contrario dei siriani sono suoi clienti. Verissimo. E infatti è un problema. È per questo che l'Occidente ha abbassato, e di molto, i propri standard etici in politica estera. Ma esiste un limite, quello che Obama ha chiamato le linee rosse. Sotto un certo standard l'Occidente si è impegnato ad agire. L'Arabia Saudita tratta le donne in un modo che in Occidente incrocia il codice penale. Ma fra impedire la libertà d'espressione delle donne e gassare il proprio popolo c'è un limite invalicabile. È quel limite che il presidente Obama si è deciso a difendere. Potremmo chiamarlo il limite della decenza. Non si può assistere impassibili all'uso da parte di un tiranno di un'arma di distruzione di massa. Farlo ci farebbe passare dall'ipocrisia alla connivenza. E secondo Obama non è possibile.

3. Secondo la teoria realista applicata alle relazioni internazionali della contemporaneità, si può benissimo assistere senza battere ciglio a qualsiasi efferatezza. Non sono affari che ci riguardano. Non toccano la nostra sicurezza nazionale. Secondo coloro che sostengono questa tesi non esisterebbe alcuna linea rossa fra l'ipocrisia e la connivenza. È tutta ipocrisia. Qui l'assolutismo pacifista e il realismo politico convergono contro l'idealismo cosmopolitico, che reputano una ideologia, ossia falsa coscienza. In verità miriamo tutti al bieco interesse. Solo che i pacifisti reputano questo atteggiamento immorale e lo combattono, mentre i realisti lo considerano un mero dato di fatto.

L'amoralità ha una sua estetica e una sua ragionevolezza, ma solo quando è portatrice di un'altra moralità. Nel suo ottuso dogmatismo, il pacifismo mira a un mondo migliore. Non così il realismo: quello in cui il fatto che qualcuno usi il gas nervino contro civili inermi mentre noi ci trastulliamo nell'agio prodotto anche grazie a secoli di colonialismo va bene, purché a morire siano gli altri. Questo modo di ragionare, apparentemente sofisticato ma medievale, non ha più alcun fondamento visto che viviamo in un mondo interconnesso. Il mondo in cui viviamo noi occidentali non è più una fortezza attorniata da selvaggi della cui esistenza non ci curiamo. Volenti o nolenti la globalizzazione ha portato l'etica della responsabilità sull'uscio di casa nostra. Se qualcosa non va bene per noi, non si capisce perché debba andare bene per gli "altri". Gli altri siamo noi.

Essere responsabili significa sì essere pragmatici nelle scelte di politica estera, ma si tratta di un pragmatismo fondato sulla moralità di un'etica comune. Dati i valori fondanti della nostra democrazia possiamo relazionarci alle altre popolazioni, anche a quelle che ancora vivono sotto tiranni. Ma il compromesso lo raggiungiamo sugli interessi, non sugli ideali. Ossia giunti a un certo punto della mediazione ad avere l'ultima parola devono essere i valori, non gli interessi.

Dunque la difesa dei valori fondativi della democrazia a un certo punto diventa questione di sicurezza nazionale. Giunti a un certo punto della mediazione degli interessi, i valori devono prevalere. Altrimenti si rischia di smarrire il senso della nostra identità, prima ancora del senso della nostra azione in politica estera. Come ci ha insegnato Joseph Conrad, se usciamo da noi stessi e abbracciamo in toto la potenza che la nostra supremazia tecnologica ci concede, diventiamo altri da noi stessi. Belve, come il realista Putin che per stizza geopolitica correrebbe in soccorso di Assad.

Per capire quanto importante sia mantenere l'ancoraggio valoriale per un paese democratico come gli Stati Uniti basta leggere l'inizio della National Security Strategy del 2013: "Our nation is strongest when we adhere to the core values and interests of the citizenry. The principle above should inform every citizen and government official to understand our national priorities, policy positions, and decisions to be made during the next four years." 

Questo non giustifica automaticamente l'intervento in Siria. Per esempio, vanno chiarite, e di molto, le fonti da cui si può desumere che ad aver usato il gas sia stato il governo di Assad e non i ribelli. Ma almeno partendo da qui si può iniziare a capire che cosa muova Obama all'azione militare.

Il Generale Mini ha recentemente affermato che gli americani non hanno capito nulla della situazione mediorientale. Può darsi. Ma a sentire il solito cicaleccio italiano sul realismo politico pare di capire che molti in Italia non hanno capito nulla degli Stati Uniti. E prima di giudicare occorrerebbe sempre capire.