La consultazione presidenziale di Novembre verrà decisa dai giudizi circa lo stile e il “temperamento” dei candidati, ma anche sul modo in cui due tra i candidati più impopolari di sempre si relazionano a establishment e ruling class.
“Stamina”, “temperament” sono definizioni del carattere umano che in senso lato sembrano più consone a giudicare un atleta o il leader di qualche movimento. Dopo l’aspro dibattito televisivo tra Donald Trump e Hillary Clinton gran parte dei commenti si sono accentrati sulla portata pratica di quelle definizioni e più precisamente su quale debba essere il giusto “temperamento” per ricoprire l’incarico di Presidente degli Stati Uniti. Trump e Hillary Clinton si scambiano i colpi più duri nel tentativo di provare che il loro avversario non ha le doti di spregiudicata fermezza che un capo dell’esecutivo deve sfoderare quando si impongono decisioni difficili. I media, che sin dall’inizio favoriscono Hillary, non hanno avuto esitazioni nel proclamarla vincitrice del confronto. Sul piano strettamente tecnico – preparazione, presentazione degli argomenti, esposizione degli stessi – è sembrata prevalere. Ma Trump ha conseguito un risultato che era per lui più importante, quello di evitare di incutere paure nell’elettorato indeciso. Prevalere tecnicamente non assicura l’elezione; ne fece le spese nel 1960 Richard Nixon che prevalse su John Kennedy per preparazione e padronanza dei temi in discussione ma fu sovrastato da quello che oggi è maggior oggetto di scrutinio, il “temperamento”, per l’appunto.
L’America dei giorni nostri non presenta un elettorato centrista che deve decidere se pendere a destra o sinistra. Negli Stati Uniti l’elezione verrà decisa in termini di confronto tra coloro che convivono con l’establishment (basti pensare agli elettori di colore che sono i maggiori beneficiari della politica assistenziale) e coloro che ritengono il presente establishment responsabile della precarietà delle loro esistenze. Esiste, semmai, una categoria di indecisi tra cui spiccano i cosiddetti millennials, in pratica i giovani sotto i trenta anni di età. Obama vinse nel 2012 grazie all’apporto del 60 per cento dei millennials. Gli attuali millennials si erano schierati quest’anno con Bernie Sanders; dopo la convenzione democratica, i sondaggi rivelano che un terzo dei giovani elettori favorisce Gary Johnson del Libertarian Party o Jill Stein del Green Party. I millennials certamente non si illudono che Johnson e Stein possano vincere le elezioni presidenziali. Altrettanto certo è che considerano Hillary candidata dell’establishment e dello status quo. I numeri in questo settore non giocano a favore di Hillary, che ha assolutamente bisogno di rimpiazzare con i voti dei giovani quelli dei baby boomers che scompaiono dai tabulati demografici. Ciò spiega tra l’altro la decisione di Hillary di appropriarsi delle idee di Sanders come quella di rendere gratuiti i “community colleges” e di varare misure volte ad abbattere lo spaventoso ammontare dei debiti degli studenti.
La consultazione presidenziale di Novembre verrà decisa dai giudizi circa lo stile e il “temperamento” dei candidati. Non vi è dubbio che questi parametri influenzano molto più i giovani che hanno scarsa esperienza dei grandi temi politici nei quali Hillary è sicuramente più versata. Con un pizzico di cinismo, si può dire che l’elezione verte sul confronto tra giovani e vecchi. La forza di Hillary Clinton riposa oltre che sugli afro-americani e hispanici, sugli anziani delle concentrazioni urbane e sui bianchi in possesso di titoli di studio superiori. Né va sottovalutato il fatto che i giovani non votano con le percentuali degli elettori bianchi di una certa età.
Per tornare al “temperamento”, il termine lanciato da Trump che ha dato la stura a molteplici interpretazioni, è molto probabile che negli elettori esso venga accomunato non tanto a virtù come la prudenza e la moderazione, ma alla propensione a rischiare fino ad usare un linguaggio “politically incorrect”, come Trump ha fatto sin dal primo momento con i risultati che tutti sanno nell’accozzaglia dei pretendenti all’investitura repubblicana. Del resto, Trump si è vantato nel dibattito con Hillary di avere un temperamento “vincente”. Hillary invece ha fatto del suo meglio nel mettere a fuoco gli aspetti più vulnerabili della personalità di Donald Trump, dagli insulti gratuiti verso donne e minoranze, a certe bellicose propensioni come quella di aprire il fuoco contro barchini iraniani rei di “provocazioni” a mezzi navali americani. Per contro, Trump non ha voluto eccedere nell’attaccare frontalmente Hillary e le sue vulnerabilità, esimendosi dal tirare in causa il tragico capitolo di Benghazi, le manipolazioni della Clinton Foundation, i legami a filo doppio della Clinton con Wall Street e, più di recente, uno sciagurato attacco ai seguaci di Trump definiti “un cesto di deplorabili”. È molto probabile che ne sentiremo parlare nel prossimo dibattito.
Quel che è certo è che la condotta di un’eventuale Amministrazione Trump è imprevedibile per la semplice considerazione che fare congetture sul temperamento di Donald Trump è un esercizio futile. È altrettanto certo che una nuova amministrazione democratica è del tutto prevedibile e che la “ruling class” – la potente classe dei burocrati, un vasto settore della magistratura e la massa dei media – faranno di tutto per contrastargli il passo. Il compito più difficile per Donald Trump – qualora fosse eletto presidente – sarebbe quello di bilanciare le pressioni dei suoi costituenti, nemici giurati dell’establishment, con quelle della “ruling class”. A tale proposito, il politologo Angelo Codevilla, esegeta di una crociata contro la “ruling class” democratico-repubblicana, avverte che i costituenti che dovessero eleggere Trump non sono uniti mentre non è affatto chiaro quali potrebbero essere le istanze che verrebbero da loro rivolte al nuovo esecutivo.
Last but not least, resta il fatto che una vasta parte dell’elettorato americano continua ad esprimere alienazione e risentimento verso l’establishment nella convinzione che esso stia conducendo il Paese sulla strada sbagliata. Trump si è fatto portavoce del risentimento di un gran numero di americani ed il suo messaggio volto a ridare vita alla “good old America” può apparire allettante. Basti pensare alla forte opposizione all’immigrazione illegale e in particolare all’avversione di Trump nei confronti dei musulmani, che non pochi americani considerano ostili ai valori dell’America. È imperdonabile anzi che il moderatore del dibattito non abbia sentito il bisogno di mettere sul tappeto la vexata quaestio dell’immigrazione che resta bloccata in un Congresso incapace di venire incontro alle sue responsabilità. Non si è parlato, e forse è meglio così, neppure di aborto, altro argomento esplosivo, eppur presente nelle menti di molti elettori conservatori. “Make America Great Again” è uno slogan accattivante che certamente fa presa sulla diffusa insoddisfazione di molti americani circa lo stato sociale ed economico della nazione ma che è lungi dall’assicurare che la presente “ruling class” venga rimpiazzata e con essa la sua traiettoria socio-economica. L’America è nata da un’esperienza rivoluzionaria ma Donald Trump è tutt’altro che un rivoluzionario. C’è da temere anzi che, ove riuscisse ad essere eletto ma fosse incapace di porre fine ad una traiettoria discendente in America, le conseguenze potrebbero essere ben più gravi di quelle di un trionfo della “ruling class” democratico-repubblicana sposata ad un establishment di spiccata marca democratica. Ecco in fondo quel che rende la prossima consultazione un evento di magnitudine storica per l’America, indipendentemente dal confronto tra due candidati che portano con sé un bagaglio di impopolarità senza precedenti nell’ultimo secolo.
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