Il gergo della politica americana lo chiama six-year itch. È una tendenza quasi naturale: dopo sei anni di amministrazione, è molto difficile che il partito del Presidente faccia il pieno di consensi. Ma se anche - come appare ormai probabile - i democratici americani dovessero perdere il controllo del Senato nelle prossime elezioni di midterm del 4 novembre, per Barack Obama non si tratterà di una tragedia.
Da quattro anni il presidente governa con la Camera dei Rappresentanti in mano al partito di opposizione, e la sconfitta non sarebbe che una delle tante brutte notizie in un periodo certo non luminoso. Dalla sua, Obama ha molti precedenti storici. Dalla Guerra Civile, solo nel 1934, nel 1998 e nel 2002 il partito del presidente ha guadagnato seggi in una midterm election - e solo nel ‘98 lo ha fatto nel secondo mandato. Tuttavia, per il piacere di elaborare congetture, ma anche perché mancano ancora più di dieci giorni al verdetto, nulla vieta di chiedersi se il barometro tenda inevitabilmente verso la sconfitta democratica, o se il partito del presidente non abbia ancora qualche residua speranza. In effetti, dicono gli esperti, ne ha.
1. Per quanto riguarda il Senato (alla Camera la conferma della maggioranza repubblicana è scontata) gli Stati in gioco, dove cioè lo stacco percentuale tra i due contendenti non supera nella media dei sondaggi i 4 punti, non sarebbero pochi: Kansas, Iowa, Georgia, Colorado, Arkansas, North Carolina, Alaska, Kentucky, New Hampshire. In tutti, tranne Kansas, Georgia e Kentucky, il senatore uscente è democratico. Il GOP conta su questi, e sui probabili swing di Louisiana, South Dakota e West Virginia, per ribaltare i rapporti di forza che lo vedono, al momento, a quota 45 senatori contro i 53 dei democratici. Tuttavia, come nota Nate Silver, basterebbe davvero poco, la forza di un’oscillazione, per cambiare il quadro: “i repubblicani sono favoriti in Iowa e in Colorado, ma non di molto. Se i democratici riuscissero a vincere in tali Stati e a conquistare il Kansas, arriverebbero a controllare cinquanta seggi del Senato, così preservando la propria maggioranza” (i due indipendenti, il socialista del Vermont Bernie Sanders e Angus King del Maine, votano solitamente con loro). In ogni caso, la tendenza ormai quarantennale è che non si verificano più schiaccianti rivolgimenti delle maggioranze nei due rami del Congresso, come accadde con alcune landslide del Novecento (Roosevelt, Johnson): anche la cosiddetta “Republican revolution” del 1994, o l’affermazione democratica del 2008, non portò a maggioranze superiori al 60% né al Senato né alla Camera dei Rappresentanti. Il 2014 seguirà questo trend.
2. Il dato politico saliente delle midterm 2014 è tutto riassunto nella fine (anch’essa fisiologica) dell’effetto-traino della figura presidenziale. Lo stesso Barack Obama che due anni fa ancora mobilitava le piazze e gli elettori ora è per la maggior parte dei contesti locali più un ingombro che un punto di forza. Ne è prova il fatto che Alison Lundergan Grimes, candidata democratica nel conservatore Kentucky, si sia rifiutata di dire se avesse votato o no per Obama alle presidenziali. Un gesto che solo qualche tempo fa sarebbe stato considerato quasi eretico. Non tutti i testimonial sono uguali, insomma: una cosa è portare “nonno Clinton”, ex presidente e dunque figura innocua, non divisiva, ai comizi e alle convention, per deliziare le platee nostalgiche degli happy days anni Novanta con la colonna sonora delle sue campagne Don’t stop thinking about tomorrow che suona a tutto volume; un’altra è il presidente attuale, che soffre del consueto appannamento (il six-year itch di cui si diceva prima) e, soprattutto, dei due grandi temi tutti esteri (che scacco, per un politico che aveva presieduto sul periodo più isolazionista della storia americana recente) che travagliano gli Stati Uniti oggi: l’Isis, e, in misura minore, l’epidemia di Ebola.
3. William Saletan su Slate lo ha spiegato bene: Ebola non è altro che un nuovo triste caso di sfruttamento elettorale di tematiche altrimenti serissime. Non c’è solo il repubblicano Scott Brown, candidato in New Hampshire, che si è spinto a dichiarare: “con Mitt Romney presidente non staremmo qui a preoccuparci di Ebola”. (Brown è lo stesso che venne battuto in Massachusetts due anni fa dalla progressista Elizabeth Warren, dopo che era scivolato sul tema delle ethnicity: durante un dibattito televisivo disse che la sua contendente sfruttava i vantaggi riservati alle minoranze perché si era iscritta all’anagrafe come di origine nativo-americana, “mentre... chiaramente non lo è”. Venne sommerso dalle critiche per una battuta che trasudava razzismo e facili schematismi). Un po’ tutti i conservatori parlano di Ebola come parlavano di Stati-canaglia, di immigrazione o di terrorismo. La soluzione, per loro, è sempre “seal the border”, chiudere le frontiere. Viceversa, i liberal si lamentano che i soldi spesi per la salute e la prevenzione sono sempre meno - è tutta una questione di tagli ai Centers of Disease Control and Prevention. La campagna, come si vede, segue le classiche scansioni.
4. In filigrana rispetto a tutto questo, persistono vecchie divisioni nell’elettorato, che sei anni di presidenza Obama non hanno aiutato a sanare. Il fatto che i democratici ripongano nel “voto nero e marrone” - come titolava il New York Times di sabato 18 ottobre con riferimento rispettivamente agli afroamericani e agli ispanici - le loro ultime aspettative, dà la misura della disperazione che serpeggia nel partito, costretto ad appellarsi al voto etnico in misura simmetrica e speculare a quanto fece Romney con il voto anglosassone bianco due anni fa. Un doloroso contrappasso. Cornell Belcher, sondaggista che ha prodotto per i democratici un memorandum a un mese dal voto, ha confermato che, questioni internazionali o religiose a parte, il vero nemico dei democratici è proprio il possibile mancato afflusso ai seggi degli afroamericani. Nel 2010 fu il turnout gap, la differenza di affluenza tra bianchi e neri, la vera ragione della sconfitta alle midterm del partito di Obama, molto più che qualsiasi presunta ondata Tea Party, che non si è mai verificata. Il discorso si fa serio quando a votare sono Stati come la Georgia - dove l’elettorato afroamericano è oltre il 30% del totale - o il North Carolina o la Louisiana. All’indomani della spettacolare - per l’abilità tecnica, seggio per seggio, sezione per sezione, con la quale era stata condotta - vittoria di Obama alle presidenziali del 2012, molti commentatori avevano predetto un fosco destino a un partito repubblicano che avesse continuato a parlare solo a un segmento della nazione. Il rischio paradossale per i democratici è che a soli due anni di distanza questo discorso si ritorca loro contro.
© Riproduzione riservata