L’8 e il 9 dicembre il «Wall Street Journal» ha organizzato a Londra una due-giorni di discussione con rappresentanti del mondo della finanza e dell’economia. L’obiettivo era di fare il punto sulle proposte di riforma dei mercati finanziari avanzate fino a oggi. Sono stati formati quattro gruppi di discussione sui temi della governance, della regolamentazione, della supervisione internazionale e dell’innovazione finanziaria, e ciascun gruppo ha fornito alcune raccomandazioni che sono state raccolte in un’agenda di lavoro.
Molte raccomandazioni riprendevano, a grandi linee, proposte di riforma avanzate negli ultimi mesi. Il gruppo di lavoro dedicato all’innovazione finanziaria ha prodotto, invece, alcune proposte su cui vale la pena fare qualche riflessione più approfondita, se non altro perché se ne è parlato poco con riferimento alla crisi.
Molti hanno visto nell’eccessiva sofisticazione degli strumenti finanziari la causa dell’attuale crisi. Così, mentre dalle tradizionali crisi industriali si usciva grazie alla liberazione di risorse nuove (imprese obsolete che lasciavano il posto a imprese innovative, lavoratori che si ricollocavano su un mercato del lavoro in evoluzione), l’effetto di questa crisi è estremamente ambiguo. L’innovazione, vista come dannosa, non viene favorita quale mezzo per uscire dalla crisi. Viceversa, le regole proposte rischiano di frenare lo sviluppo di nuovi strumenti. Invece, le innovazioni di ieri continueranno a essere utilizzate, e nuovi strumenti entreranno a far parte del mondo finanziario: è così in ogni mercato, figurarsi in un settore a elevato capitale umano dinamico come la finanza.
E allora, se l’innovazione finanziaria riprenderà, come evitare gli errori del passato? I partecipanti al dibattito organizzato a Londra hanno proposto 5 raccomandazioni. Come tutte le raccomandazioni, esse si basano su buoni principi, ma contengono il nocciolo del loro potenziale fallimento: l’eventuale inapplicabilità. Vediamole, e approfittiamone per fare il punto della situazione.
Le prime due sono dirette al core del business finanziario: più trasparenza nel caso di presentazione di nuovi prodotti e la necessità di evitare una sovra-regolamentazione.
Un’attenta valutazione di costi e benefici della regolamentazione sarebbe sicuramente utile: troppe regole bloccano le innovazioni (nella finanza come in tutti gli altri settori economici) e rischiano di diventare inefficaci e restare disattese. Meglio poche regole rispettate da tutti. Il problema è che il dibattito non trova una facile soluzione per un motivo molto semplice: la regola base per cui chi fornisce prodotti sbagliati paga si è dimostrata inapplicabile (o comunque non è stata applicata) nel caso delle recenti crisi degli operatori del settore. Venuta meno questa regola, si creano dei meccanismi di moral hazard tali da poter essere contrastati solo con una regolamentazione di intensità uguale e contraria (living wills, limiti ai bonus imposti dai governi, obbligo di scorporare attività non core). È un circolo vizioso che non crea sicuramente efficienza, ma a oggi non sembrano esserci chiare soluzioni per uscirne.
Proporre più trasparenza sui prodotti finanziari è sicuramente giusto, ed è giusto proporre (obbligare?) a presentare scenari ottimisti e pessimisti con uguale enfasi in modo da evidenziare sia le potenzialità sia i rischi di tali prodotti. Il punto debole di questa argomentazione è però evidente: se gli strumenti finanziari sofisticati nati negli ultimi anni sono inutili, meglio evitarli. Se sono utili, e giustificano l’enorme capitale umano attirato dal settore finanziario negli ultimi due decenni, allora è difficile che chi è esterno al sistema (il consumatore, il regolatore, l’autorità di garanzia) possa valutare a priori la qualità del prodotto e la verosimiglianza delle informazioni correlate.
Come vigilare sul processo innovativo, allora, per evitare che sfugga di mano? Vengono proposti due meccanismi di controllo: per limitare dall’esterno le possibili deviazioni e per favorire l’autocontrollo da parte degli operatori stessi.
Risolvere i conflitti di interesse delle agenzie di rating e favorire una maggiore concorrenza nel settore con l’incremento del numero delle agenzie favorirebbe un più efficace controllo sulla qualità degli strumenti finanziari sul mercato. Non è però un problema di facile soluzione. I conflitti di interesse possono essere limitati vietando qualsiasi altro rapporto contrattuale (consulenze sulla rischiosità dei prodotti, analisi strategiche, ecc…), al di fuori del rating stesso, tra “issuer” e agenzie. Per eliminare ogni conflitto però, il rating dovrebbe essere commissionato dagli investitori e non da chi emette titoli. Data la velocità con cui le informazioni si diffondono è però difficile che un investitore trovi conveniente investire per ottenere informazioni che resterebbero di natura privata per brevissimo tempo. Da notare che in principio, se gli investitori avessero ritenuto utile richiedere rating indipendenti sarebbero stati liberi, in principio, di farlo anche in passato. L’apertura del mercato alla concorrenza risolverebbe in parte il problema. Se sbagli perdi credibilità, se perdi credibilità il tuo servizio viene valutato meno e altri operatori prendono il tuo posto. Il problema è che la regolamentazione è andata, negli ultimi tempi, in direzione esattamente contraria. Chi si quota sulla borsa americana deve essere valutato da un’agenzia iscritta nell’apposita lista di operatori autorizzati, ad esempio, e il mercato è rimasto, così, di fatto bloccato.
L’assegnazione di un più ampio potere alle funzioni di risk management appare coerente. Il risk manager dovrebbe essere un pari livello del product manager. È un principio rispettato in ogni azienda, dove le funzioni di controllo (compliance officer, ISSO…) dovrebbero riportare direttamente al CEO e al Consiglio di Amministrazione, mantenendo così un ruolo parallelo e indipendente rispetto alle funzioni operative. Purtroppo, come ha fatto constatare Paul Volcker, ex Governatore della FED, difficilmente si vedono Consiglieri di Amministrazione in grado di comprendere appieno rischi e benefici di sofisticate innovazioni finanziarie. Quindi, come in campo industriale i board of director si sono dimostrati scarsamente efficaci nel prevenire crisi aziendali rovinose (vedi Enron, che pure aveva un nutrito board of directors apparentemente indipendente), così nell’ambito finanziario c’è il rischio di non poter fare troppo affidamento su questo meccanismo di autocontrollo interno alle società.
Molte delle raccomandazioni citate si scontrano, come abbiamo visto, con la complessità degli strumenti finanziari. Ed ecco che l’ultimo punto, forse quello veramente centrale per permettere un mercato finanziario più trasparente, riguarda le infrastrutture. Per permettere uno sviluppo sano del mercato occorrono infrastrutture in grado di supportare: 1) Gli operatori nell’attività di disegno di nuovi prodotti finanziari; 2) Gli organi interni delle società nelle attività di risk management e di monitoraggio continuo delle esposizioni; 3) Le autorità di controllo nella valutazione del profilo di rischio degli operatori. Di fatto, se la tecnologia non è stata la causa della crisi, sicuramente sistemi IT frammentati e scarsamente integrati, incapaci di fornire informazioni tempestive sull’esposizione verso le controparti ha acuito i problemi di valutazione e gestione del rischio. Inoltre, per sviluppare nuovi prodotti e gestire la vendita dei derivati serviranno strumenti complessi. E i 500 miliardi di dollari spesi quest’anno dal settore potrebbero in futuro rivelarsi insufficienti.
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