Visti gli interessi in gioco, viene da chiedersi chi ci rimetta di più. Agli indiani interessano gli elicotteri italiani. E magari altri prodotti della nostra industria militare. Gli italiani nel business vi trovano un tornaconto interessante. L’ultima commessa di Finmeccanica con il governo di Delhi, quella sotto inchiesta, è di 750 milioni di dollari. Ma è la punta di un iceberg. Per comprendere il volume di affari tra il nostro Paese e il subcontinente basta dare uno sguardo al sito internet della Camera di commercio che gestisce gli scambi bilaterali. All’insegna della trasparenza e immune da qualsiasi fumus persecutionis. Ma perché l’economia non riesce a mettere d’accordo Roma e Delhi? Soprattutto perché non è in grado di coprire con una pietra della dimenticanza la faccenda dei marò?

La cronaca delle ultime 48 ore è segnata da un’impennata delle tensioni. Dopo che la Farnesina ha reso noto che i due fanti di marina non torneranno in India, in attesa che si crei un tribunale speciale per il loro processo, Delhi ha deciso di non permettere al nostro ambasciatore, Daniele Mancini, di lasciare il Paese. Gli ultimi aggiornamenti della vicenda sono qui sintetizzati. Il caso è da manuale di storia delle relazioni internazionali. Crea un precedente e sembra di essere tornati indietro di qualche secolo. L’ambasciatore lo si tratteneva nel Rinascimento. I Valois commettevano uno sgarbo agli Asburgo e questi rinchiudevano nelle segrete dei loro castelli i messi diplomatici della corona nemica. Si diceva che ambasciator non porta pena, perché il suo arrivo presso una corte straniera era segno di pace. Non è mai stato fatto un proverbio sul suo rientro in patria, però. Forse perché l’epilogo positivo di una missione diplomatica è non mai stata certa. Il riferimento alle due dinastie in questo esempio è casuale. Un fatto di storia vera che, per alcuni aspetti, si può avvicinare alle ripicche indiane è quello della principessa Mafalda di Savoia gettata a morire in un lager nazista dopo che l’Italia – e con essa il re Vittorio Emanuele, padre della sventurata – aveva firmato l’armistizio agli alleati l’8 settembre 1943. Ma c’era una guerra. Oltre che un’ondata di follia collettiva tra le nazioni e i popoli.

L’India sta esagerando? No. L’India sta soltanto giocando la partita a modo suo. Senza guantoni. Probabilmente se a febbraio 2012, all’inizio del pasticciaccio, qualcuno fosse arrivato dai magistrati del Kerala e a casa dei familiari dei pescatori uccisi con una mazzetta di dollari, oggi non dovremmo gestirci questo brutto strascico. Qualcuno inviato da Roma. Dal ministero degli esteri, per esempio. O dai servizi di intelligence. Qualcuno incaricato di risistemare, in maniera spiccia, la sbavatura dei marò e dei loro superiori. «Sono Wolf. Risolvo i problemi», dice Harvey Keitel in Pulp Fiction. Alle volte, le istituzioni dovrebbero avere un po’ più fantasia. Ovvio che in questo caso la soluzione sarebbe stata ufficiosa. Ma l’anno scorso, all’eventualità di una bustarella risolutiva, ci fu chi rispose che l’Italia non si abbassa a simili gesti. Forse. È altrettanto probabile però che allora i soldi avrebbero fatto la differenza.

Oggi è stata proprio l’Italia ad aver colpito l’India sotto la cinta. La scelta di trattenere qui i due marò suona brutta. È logico che a Delhi si sentano quanto meno scippati della preda. E che per questo reagiscano male. Chiediamoci come ci sentiremmo se l’avessero fatto a noi.

Il primo ministro Singh, dal canto suo, ha dismesso gli abiti del guru economista in barba bianca. E ha dimostrato l’animo guerriero che è proprio della sua religione, i Sikh. Alla faccia anche del suo stesso datore di lavoro, Sonia Gandhi, presidente del Partito del Congresso, di cui il premier è un autorevole membro tecnico. Un’italiana che da sempre diluisce le sue origini piemontesi. La suscettibilità è un collante dell’identità nazionale indiana. Così come il loro complesso di inferiorità. Credono che un qualsiasi occidentale – dal turista alla multinazionale – sbarchi a casa loro nutrendo velleità tardo colonialiste. Sonia Gandhi lo sa bene. Per questo non ha fatto nulla per i due marò. Meglio: ha lasciato carta bianca al suo premier.

La chiave di lettura dell’episodio è più semplice di quanto si pensi. Singh si è sentito ispirato dall’orgoglio nazionale. Un orgoglio di cui l’ambasciatore Mancini fa le spese in questi giorni. Un orgoglio dettato anche dalla necessità del Congresso di non essere bersaglio dell’opposizione. Ancor più, l’Italia paga lo scotto di misurarsi con un’India che si sente una grande potenza a tutti gli effetti. Come la Cina, la Russia e gli Stati Uniti. Poco importa se poi al Consiglio di sicurezza dell’Onu Delhi non abbia ancora un seggio permanente. Il suggello formale del suo status non è lontano. «Con noi non si scherza», ci ha detto Singh arrestando prima i marò e ora trattenendo il diplomatico. L’Italia ha commesso l’errore di provocare un vicino di casa. Sapevamo che avrebbe reagito male. E allora perché stuzzicarlo? Onu, Usa oppure Ue. C’è da chiedersi chi verrà in mediazione. Chi sarà il Wolf del caso e tenterà di riparare i danni. Resterà comunque la traccia dell’offesa reciproca. Ma soprattutto bisognerà ricordarsi di come si comporta l’India odierna. Una lezione per tutti i governi occidentali. Namasté!