Le foto sorridenti del G2, con Barack Obama e Hu Jintao in cordiali convenevoli, appaiono oggi un nostalgico amarcord. Quell’intesa che aveva caratterizzato tutto il 2009, anno di crisi e di salvataggi e di ritorno del keynesismo – più stato e meno mercato, che per i cinesi è normalità ma per gli occidentali un po’ meno, e che aveva bypassato i consessi allargati e per questo meno agili, alimentando le speranze di una ripresa globale – ora pare impantanata in un’incomprensione via l’altra. L’ultima è anche la più antica: il valore dello yuan.

 

Cento deputati del Congresso americano hanno scritto a Obama una lettera chiedendo che l’Amministrazione americana si decida a fare qualcosa contro la costante sottovalutazione della moneta cinese (1). Entro aprile, gli Stati Uniti possono dichiarare la Cina un paese che «manipola la sua valuta», e le pressioni affinché ciò avvenga sono sempre più forti, anche a fronte di una sempre maggiore evidenza di tale manipolazione (2). Pechino dal canto suo risponde che non ha alcuna intenzione di toccare la valuta, che anzi semmai è il dollaro a essere troppo basso e che la sua strategia resterà invariata nel breve periodo (3). C’è chi sostiene, come il Nobel Paul Krugman (4), che con lo yuan così irresponsabilmente basso non ci sarà mai ripresa, e chi invece pensa, come James Fallows dell’«Atlantic» (5), che pure un rialzo non porterebbe i risultati sperati. Poi c’è il «Wall Street Journal» (6) che sentenzia: non usate lo yuan come capro espiatorio delle vostre magagne mal riuscite, cari americani, se la strategia di ripresa keynesiana non ha funzionato la colpa è vostra, non dei cinesi.

Quel che è certo è che se da un lato Cina e America sono indissolubilmente legate per una semplice questione di domanda e offerta, dall’altro questo equilibrio ha un prezzo sempre più oneroso in termini politici, un prezzo che paga soprattutto l’Occidente. Come ha spiegato «Newsweek» in un lungo articolo (7), la Cina sta ridisegnando le regole del commercio, della tecnologia, della valuta, del clima, di tutto quello che sta a cuore anche a Europa e America. In più Pechino ha una spregiudicatezza tale nelle sue manovre che non sta a vedere quanto e se gli altri grandi paesi del mondo sono d’accordo. Fa e basta. E di fronte a uno sgarbo, o a quel che percepisce come tale, reagisce a modo suo. È di traverso su tutti i dossier che contano, soprattutto su quello iraniano che preme all’Amministrazione americana, e nonostante le suadenti parole dei messi della diplomazia nulla è destinato a cambiare. D’altro canto una guerra commerciale o valutaria tra le due potenze non se la augura nessuno, soprattutto non l’Europa che vede il protezionismo americano da un lato e l’aggressività cinese dall’altro, e resta in mezzo senza neppure una strategia condivisa (8) per salvare i suoi membri.


(1) http://www.ft.com/cms/s/0/af1268ca-304a-11df-8734-00144feabdc0,dwp_uuid=9c33700c-4c86-11da-89df-0000779e2340.html

(2) http://www.economist.com/displayStory.cfm?story_id=15715184

(3) http://www.businessweek.com/news/2010-03-18/u-s-sees-blue-skies-ahead-for-china-ties-amid-yuan-dispute.html

(4) http://www.nytimes.com/2009/10/23/opinion/23krugman.html?_r=1&hp

(5) http://www.theatlantic.com/business/archive/2010/03/how-to-think-about-the-rmb-currency-manipulation-and-trade-war/37590/

(6) http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704743404575127511778280940.html?KEYWORDS=the+yuan+scapegoat

(7) http://www.newsweek.com/id/234928

(8) http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704207504575129022672073334.html?mod=WSJEUROPE_hpp_LEFTTopStories