Continuiamo con i dialoghi fatti attraverso Facebook. In alcuni casi, il mezzo favorisce la discussione semplice e breve. Qui affrontiamo il tema del risanamento del bilancio pubblico degli Stati Uniti (1). La parte delicata sembra essere la difficoltà, se non l’impossibilità, di alzare le imposte.

GA – Il deficit statunitense è intorno ai 1.500 miliardi di dollari. Il Pil statunitense è intorno ai 15.000 miliardi di dollari. Se il Pil cresce del 5% (nominale e reale) si generano 750 miliardi di dollari. Il deficit di 1.500 – pari al doppio della crescita del Pil (nominale e reale) – continua ad alimentare la crescita del debito in rapporto al Pil. Dunque il bilancio pubblico deve essere toccato anche se il Pil cresce. Non lo si tocca solo per una crescita (nominale e reale) del 10% che produrrebbe 1.500 miliardi di dollari. Un numero non verosimile. Bene, ma toccare che cosa: le spese o le entrate?

GR – Dipende dal potere che hai. Se tu avessi un potere non condizionato e volessi salvaguardare gli interessi degli obbligazionisti, la stabilità finanziaria della moneta e anche i programmi dello stato sociale, non c’è dubbio che dovresti aumentare le tasse. In particolare, le tasse sui ricchi, perché se tassi di più i ricchi non deprimi granché i consumi, quindi non tagli la crescita. Inoltre negli Stati Uniti c’è spazio per tassare i ricchi, a causa della bassa tassazione marginale del reddito e per via della distribuzione concentrata della ricchezza finanziaria. Pensa che l’1% dei più ricchi possiede il 42% della ricchezza finanziaria mentre l’80% dei più poveri (o meno abbienti, data la percentuale) ha solo il 7% delle azioni, delle obbligazioni e dei fondi comuni. Per contro, ridurre le spese di circa il 5% del Pil significa cancellare più o meno uniformemente un quinto dei programmi di spesa pubblica. È una cura dimagrante che ha due effetti perversi: il primo è che non si può ultradecimare la spesa senza fare della «macelleria»; il secondo è che un taglio di questo genere si mangerebbe la base imponibile, anche se il moltiplicatore keynesiano fosse <1: quindi dopo un anno gli Stati Uniti sarebbero con gli stessi problemi, ma un po’ più poveri. Se non si fa né l’una né l’altra cosa, si può monetizzare il deficit e spingere l’America sulla strada dell’inflazione a due cifre, oppure ristrutturare il debito pubblico, ma con questo si avrebbe la fine del dollaro e del più grande mercato finanziario mondiale. Io voterei per la prima soluzione.

GA – Se l’utilità marginale del denaro fosse decrescente e l’utilità marginale di una società equa fosse crescente, i ricchi dovrebbero essere lieti di pagare più imposte. Sembra invece che prevalga l’idea dell’utilità crescente del denaro – lavoro di più se pago meno tasse, anche se guadagno già molto – e che prevalga l’utilità decrescente della società equa – suppongo che una società iniqua abbia una grande capacità di tenuta politica. L’idea migliore che abbia letto è quella, classica, di Rawls: 1) si supponga di essere avversi al rischio e di non sapere dove e come si nasce; 2) conviene volere lo stato sociale. Infatti, se nasco bene (ricco o con qualità e fortuna) sto comunque bene, se nasco male (povero o con poche qualità e sfortunato) sto comunque meglio. A me sembra talmente ovvio che mi chiedo perché ci sia chi non condivide il ragionamento. È come la scommessa di Pascal: conviene credere in Dio, perché se c’è è meglio, se non c'è nulla cambia.

GR – Adesso provo a essere cinico. Gli individui hanno tutto il diritto di scegliere la forma della propria funzione di utilità rispetto al denaro, quindi se ci sono individui convessi, ossia più ingordi che individualisti, buon per loro, ma non per tutti. Obama perciò ha il dovere di cercare soluzioni utilitaristiche che non scassino il contratto sociale che lega tutti, che sta nella Costituzione per la quale ha giurato, se no tradisce il mandato istituzionale (che è diverso dal mandato elettorale). Insomma, non si può far politica inseguendo gli interessi degli elettori, men che meno inseguendo gli interessi dei grandi elettori, che usualmente sono anche i grandi contribuenti. La grandezza di una democrazia laica e liberale è questa. Le leggi non sono divine, esiste un interesse pubblico che può essere opposto a un interesse individuale, le tasse sono il prezzo per partecipare alla scelta a maggioranza delle politiche di risoluzione del conflitto tra i diversi interessi. Almeno, sulla carta dovrebbe essere così.

(1) http://www.scribd.com/doc/52842535/IMF-Fiscal-Monitor