La prima tesi sostiene che, con la fine delle politiche monetarie ultra-espansive negli Stati Uniti, le quotazione delle obbligazioni dovrebbero scendere e quelle delle azioni salire, con ciò avvicinandosi ai livelli che hanno spinto la borsa al ribasso (§1). La seconda tesi sostiene le politiche di austerità nell'euro area dovrebbero continuare, con ciò spingendo verso le riforme, in un contesto di bassa crescita. Se così fosse, le obbligazioni dei Paesi “mal messi” dovrebbero tenere, e le azioni europee, dato il livello basso delle loro quotazioni, potrebbero trarne giovamento (§2). La terza tesi sostiene che la politica economica giapponese sarà ultra espansiva, con le azioni saranno comprate dagli investitori istituzionali su invito delle autorità (§3). L'asset allocation si conclude una digressione sul dollaro, laddove si sostiene la quarta tesi che afferma che esso dovrebbe restare “stabilmente debole”, salvo un “guizzo”, che si potrebbe avere con la fine delle politiche monetarie ultra-espansive (§4).

1- Stati Uniti

Il clima oggi, a differenza di quello che si aveva vai tempi della bolla del Nasdaq, e poi ai tempi di quella immobiliare, è di “scetticismo”, anche per il lavorio dell'esperienza. Alan Greenspan, prima come governatore e poi come ex governatore della banca centrale statunitense, sosteneva che non si dovesse intervenire durante la formazione della bolla, ma solo quando questa - sgonfiandosi - avesse messo in difficoltà l'economia. Oggi, invece, si mostra “pentito”. Sostiene, infatti, che l'approccio economico tradizionale - da intendersi come quello che pone al centro dei modelli la razionalità degli operatori - funziona nei mercati reali, ma non sempre in quelli finanziari. I quali funzionano secondo l'approccio economico tradizionale, salvo quando l'indebitamento diventa eccessivo, per cui possono, a causa della fragilità del sistema, crearsi delle situazioni di euforia e di panico (1).

Nonostante le politiche monetarie siano ultra espansive da cinque anni – i tassi di interesse praticati dalle banche centrali alle banche di credito ordinario sono quasi nulli e si hanno gli acquisti copiosi delle banche centrali di titoli del tesoro in maniera diretta oppure indiretta (2) – l'economia si riprende poco. E anche quando si riprende di più essa fa fatica a coprire la crescita demografica – altrimenti detto, il reddito pro capite stenta a salire.

Si sospetta intanto che vi sarà un gran travaso dagli investimenti in obbligazioni a quello in azioni, ma pochi ne sono entusiasti. Il travaso è il frutto della fine delle politiche monetarie ultra espansive. Una volta che queste non ci fossero più, ecco che verrebbe meno la domanda di obbligazioni della banca centrale. Ciò che dovrebbe - per attrarre gli investitori privati - spingere i prezzi – soprattutto dei titoli decennali (3) al ribasso, ossia - la cedola è fissa - i rendimenti al rialzo. Per evitare la perdita in conto capitale, che nel caso delle banche si è già manifestata (4), gli investitori potrebbero comprare azioni. Se in molti lo facessero, ecco che si avrebbe una forte correzione del prezzo delle obbligazioni ed un'ascesa di quello delle azioni. Le azioni però non sono a buon mercato e quindi entrerebbero velocemente in un'area da bolla (5), (6).

3- Europa

Un'area economica è “ottimale” se, avendo la stessa moneta: 1) ha un mercato dei prodotti comune; 2) ha un mercato dei capitali comune; 3) ha un mercato del lavoro comune; 4) ha un bilancio fiscale comune. L'euro area soddisfa i requisiti 1) e 2). Non soddisfa, in tutto o in parte, i requisiti 3) e 4).

Prendiamo gli Stati Uniti relativamente al punto 3). Se non c'è lavoro nell'area occidentale, la gente va in quella orientale. Relativamente al punto 4), se l'area occidentale è mal messa, ecco che il bilancio federale, che incassa imposte da entrambe le aree, ma, nell'esempio, ne incassa di più dalla parte orientale, trasferisce i fondi verso l'area occidentale. Attenzione, i bilanci statali statunitensi non possono andare in deficit, se non per spese definite come quelle per infrastrutture, e quindi possono emettere solo dei “project bonds”, e perciò solo quello federale ha questa facoltà. Gli stati non possono andare genericamente in deficit – possono sempre alzare le spese se alzano le imposte -, perché altrimenti sarebbero tentati dal farlo, contando che, alla fine, il loro debito statale sarà salvato da quello federale.

La prima differenza dell'euro area con gli Stati Uniti è che, se il Portogallo va male e l'Olanda va bene, è difficile che i lusitani si trasferiscano in massa – per problemi di lingua e di abitudini - nei Paesi Bassi. La seconda differenza è che i bilanci statali dei Paesi dell'euro-area possono andare in deficit, sebbene entro i vincoli (più o meno disattesi) di Maastricht (il famigerato deficit del 3% del PIL, e l'altrettanto famigerato tetto del debito del 60% sul PIL). Non esiste, infatti, nell'euro-area un governo centrale che copra – raccogliendo le imposte da tutti e in caso di crisi di più da alcuni - i deficit degli stati membri.

La Germania (con i Paesi detti “virtuosi”) non garantisce il debito degli altri Paesi. E dunque, quando i Paesi si indebitano troppo, senza dar mostra di poter ripagare il debito cumulato, ecco che l'euro- area conta che i mercati finanziari li “puniscano”, ossia che chiedano un “premio per il rischio”. L'euro-area funziona se i mercati finanziari puniscono le “cicale”, premiando chi è “formica”, ma questo non è avvenuto sempre. Per anni la Grecia ha, infatti, pagato sul proprio debito pubblico un rendimento di poco superiore a quello tedesco.

Perciò nella costruzione dell'euro-area si ha un mercato comune dei prodotti, dei capitali, ma si ha un modesto mercato del lavoro omogeneo, e non si ha – forse un giorno, quando tutti gli Stati dell'euro area avranno il bilancio in pareggio con esenzioni definite per l'emissione di obbligazioni come avviene negli Stati Uniti - un sistema di trasferimenti federale di tipo “automatico”. I trasferimenti che si sono avuti negli ultimi tempi con il “Fondo Salva Stati” sono stati, infatti, tutti oggetto di un lungo negoziato. Possiamo perciò immaginare l'euro-area come un'area economica parzialmente ottimale.

Detto del contesto, passiamo a quel che comunemente è chiamato il “punto di vista di Berlino”, che si articola in tre proposizioni, che, alla fine, seppur con riserva, sono condivisibili:

a) La politica economica – la politica monetaria e quella fiscale nel mondo anglosassone e nipponico - spinge la crescita. Ciò che avviene modulando i tassi praticati dalla Banca Centrale in modo che si spinga in giù il costo del denaro e con la Banca Centrale che compra il debito pubblico, se questo è necessario. La politica monetaria è quindi tendenzialmente lasca, e quella fiscale è tendenzialmente in deficit. Perché mai quella fiscale è tendenzialmente in deficit? Con una domanda aggiuntiva - in deficit - di origine pubblica che copre il vuoto prodotto dalla domanda latitante di origine privata, ecco che si ha una spinta che è coperta dall'offerta. Le imprese per far fronte alla maggior domanda devono aumentare l'occupazione. Se le cose stessero così (e se fossero state così anche in passato), ossia se le cose fossero così semplici e persuasive, perché mai si ha chi – soprattutto nell'euro area - non le vuole perseguire (e non le ha volute perseguire in passato)? Le obiezioni sono due.

La prima. La spesa pubblica spinge nella direzione della crescita, se, a fronte di una spesa di 100 euro cui non corrispondono imposte per 100 euro, l'economia cresce per più di 100 euro, poniamo 150 euro, ossia se il moltiplicatore del reddito è maggiore di 1 (150/100=1,5). La spesa aggiuntiva di 100 è finanziata attraverso l'emissione di obbligazioni, per cui il debito pubblico è aumentato di 100. Questo però non è un problema, perché l'economia è cresciuta di 150 euro e il debito pubblico di 100, e dunque al margine il rapporto debito PIL è sceso (100/150=0,75). Se però così non fosse, ossia se il moltiplicatore della spesa pubblica fosse di 1, oppure inferiore, la spesa pubblica in deficit spiazzerebbe il settore privato e spingerebbe verso l'aumento del debito in rapporto al PIL.

La seconda. Ammettiamo che il moltiplicatore della spesa sia maggiore di uno, ossia ammettiamo che esso sia “virtuoso”. Siamo propri sicuri che, una volta che la spesa pubblica sia stata espansa con successo in funzione anti-ciclica, essa poi rientri? In altre parole, pensiamo che il deficit pubblico, svolto il compito, rientri? Oppure pensiamo che la spesa pubblica per sua natura – essa è, alla fine, “catturata” dai gruppi organizzati - crescerà in modo perpetuo?

b) Se si immagina che un giorno il debito pubblico sarà di gran lunga maggiore di quello di oggi, si immagina anche che le imposte volte a ripagarlo saranno maggiori. Allora oggi si ridurranno i consumi, perché si scontano fin da subito le maggiori imposte di domani. Ossia, maggiore (minore) il debito atteso minori (maggiori) saranno i consumi. Il punto di vista di Berlino afferma che il debito pubblico sotto controllo aiuta la crescita dei consumi.

c) La liberalizzazione del mercato dei prodotti (meno corporazioni) e del lavoro (più contratti decentrati) stimola la crescita e dunque l’occupazione. Perciò il punto di vista di Berlino afferma che queste riforme vadano fatte (7).

La prima tabella mostra le previsioni del Governo italiano sul rientro dal deficit pubblico e sulla stabilizzazione del debito pubblico. Si ha una crescita reale non modesta unita a un'inflazione modesta. La crescita nominale (= crescita reale più quella dei prezzi) del PIL sale - dal 2014 al 2017 - dal 3% circa al 4% circa. Grazie alla crescita che genera delle maggiori entrate a parità di aliquote e grazie alle manovre che mettono le uscite sotto controllo, si ha un avanzo di bilancio prima del pagamento degli interessi – il surplus primario – nell'ordine del 5%. Poiché l'onere da interessi è intorno al 5% del PIL, nel 2017 si ha il pareggio del bilancio. In altre parole, le entrate dello stato sono maggiori delle sue spese e la differenza paga gli interessi sul debito. Svanisce così il deficit, e non si emette più debito pubblico. Il debito pubblico resta perciò costante – il numeratore non varia -, mentre il PIL cresce – il denominatore ha una variazione positiva. Si ha perciò una discesa del rapporto fra il Debito e il PIL, che arriva al 120% nel 2017. (Nota tecnica: il costo del debito pubblico come tale è del 4,5% circa, ma poiché il debito è intorno al 130% circa del PIL, ecco che esso, espresso in percentuale del PIL, è maggiore, ossia 4,5%X1,3).

 

  2013 2014 2015 2016
Crescita -1,70% 1,00% 1,70% 1,80% 1,90%
Deflatore 1,20% 1,90% 1,70% 1,70% 1,70%
Costo debito 5,40% 5,40% 5,30% 5,30% 5,20%
Surplus 2,40% 2,90% 3,70% 4,50% 5,10%
Debito/PIL 132,89% 132,80% 129,00% 125,00% 120,00%

 

Tutto bene? Si, ma la crescita potrebbe essere inferiore e il costo del debito maggiore. In questo caso, il surplus primario sarebbe inferiore a quello della tabella, e dunque il deficit sarebbe maggiore e, alla fine, il rapporto Debito/PIL maggiore. In questo caso, la vulnerabilità del nostro debito sarebbe maggiore e i rendimenti richiesti potrebbero essere maggiori. La vulnerabilità dipende anche dal debito che va in scadenza, che non è proprio poco, anche se vicino alla media dei Paesi avanzati, come mostra la seconda tabella (10). La vulnerabilità finanziaria italiana ha una componente interna – la crescita che potrebbe essere inferiore, e una esterna – il rialzo dei rendimenti legato alla fine delle politiche monetarie ultra espansive.

 

Debito in scadenza 2013 2014 2015
Giappone 58,40% 58,10% 54,20%
Italia 28,40% 28,10% 28,30%
Stati Uniti 23,90% 24,30% 23,00%
Germania 8,30% 8,10% 5,50%
Svizzera 3,30% 3,00% 2,30%
Paesi avanzati 22,30% 22,50% 21,40%

 

Passiamo alle azioni. Se le azioni hanno un rendimento (dividendo su prezzo) del 4% e se le obbligazioni del Tesoro (cedola su prezzo) hanno un rendimento del 4%, allora il valore attuale perpetuo dei dividenti futuri è pari a 1, ossia la Borsa sconta solo le cedole, che non possono crescere, mentre non sconta alcuna crescita dei dividendi, che, al contrario, possono crescere. Prendiamo il rendimento delle obbligazioni statunitensi e tedesche (in media storica, quello corrente è troppo basso) e confrontiamolo con il rendimento corrente delle azioni statunitensi ed europee. Il rendimento corrente delle azioni statunitensi è del 2% e il rendimento storico (mediano) delle obbligazioni è del 4%. Il rendimento corrente delle azioni europee è del 3% e il rendimento storico (mediano) delle obbligazioni tedesche è del 3,5%. Dunque nel caso statunitense la crescita economica attesa (implicita nei differenziali di rendimento) è pari al 50% del valore corrente delle azioni (1-(2%/4%)=50%), mentre nel caso europeo la crescita economica attesa è pari al 15% del valore corrente delle azioni (1-(3%/3,5%)=15%). Ossia le borsa statunitense ha dei prezzi che si giustificano solo se c'è una gran crescita, mentre quella europea ha dei prezzi che si giustificano anche se la crescita è molto modesta (8)

3- Giappone

L'idea sottostante il rilancio dell'economia del Giappone – la cosiddetta Abenomics dal nome del primo ministro Shinzo Abe - è questa: 1) la banca centrale compra le obbligazioni messe in vendita dal Tesoro; 2) il Tesoro perciò finanzia agevolmente il deficit, che, si noti, non viene messo sotto controllo, perché non deve preoccuparsi se i privati possono decidere di comprare meno debito pubblico dal momento che questo è enorme e in crescita; 3) si dichiara che si cercherà di far salire il livello generale dei prezzi del 2%, e perciò si “spaventano” i detentori di obbligazioni, che ricevono un rendimento di molto inferiore al 2%; 3) i detentori di obbligazioni cercheranno perciò dei rendimenti maggiori andando all'estero, e, se lo fanno in massa, ecco che lo yen si svaluta; 4) con lo yen che si svaluta sono favorite le imprese che hanno gli impianti dislocati in Giappone, e perciò aumenterà il volume dei profitti, con ciò alimentando l'ascesa della borsa e l'autofinanziamento; 5) l'ascesa dei corsi azionari, a sua volta, alimenta i consumi attraverso l'”effetto ricchezza”, e il maggior autofinanziamento, a sua volta, alimenta gli investimenti.

Lo yen si è svalutato molto e la borsa è salita parecchio da quando si ha la Abenomics. Ultimamente, la borsa cresce meno e lo yen è meno debole. Non si sono però avuti gli agognati spostamenti dei portafogli dei fondi pensione, degli impieghi delle poste, e delle assicurazioni sulla vita che sono ancora concentrati nell'investimento obbligazionario. I prezzi delle obbligazioni, che dovevano scendere, non si sono, infatti, sostanzialmente mossi. Da qui l'idea di spingere i fondi pensione che si controllano – come il Fondo Pensione dei Dipendenti Pubblici – verso l'investimento azionario. Il timore che hanno questi ultimi è che se si mettono a vendere obbligazioni possono rimetterci, perché i prezzi scendono. Secondo le ultime dichiarazioni delle autorità il timore è infondato, perché la banca centrale le comprerebbe tutte in pochi mesi. A quel punto i fondi pensione possono acquistare azioni, anche delegando a terzi la gestione. E la borsa può ripartire. Verrebbero anche toccati i limiti statutari dei fondi pensione che possono investire in borsa in media il 12% del portafoglio con escursioni del 6%, ossia possono avere azioni che vanno dal 6% al 18% del loro investimento. Insomma, il limite del 18% verrebbe alzato.

Con buona pace di quelli che sostengono che ormai il mondo è ormai una “macelleria neo-liberista” in Giappone si ha la più grande manovra “statalista” per rilanciare l'economia che si si mai vista. I prezzi delle attività finanziarie sono spinti nella direzione di una svalutazione del cambio per forzare le esportazioni. Grazie alle maggiori esportazioni, ai maggiori consumi, e ai maggiori investimenti si ha l'agognata uscita dalla deflazione.

Il dettaglio del meccanismo finanziario è questo. La banca centrale compra copiosamente il debito pubblico per finanziare la spesa in deficit e per assorbire le obbligazioni dei fondi pensione, mentre i fondi pensione comprano le azioni giapponesi e comprano le obbligazioni estere. L'uscita dei capitali dal Giappone, deve, infatti, essere maggiore dell'entrata di capitali, se si vuole avere una moneta debole. Lo yen debole inoltre favorisce gli investimenti in obbligazioni estere, perché i fondi pensione riceverebbero delle cedole maggiori in monete che si rivalutano. Perciò l'Abenomics funziona se i giapponesi comprano “come pazzi” le obbligazioni altrui. E l'estero? Se comprasse le obbligazioni giapponesi avrebbe dei rendimenti minuscoli in una moneta che si svaluta. Se comprasse le azioni giapponesi, avrebbe, al contrario, dei rendimenti (in conto capitale) elevati, ma in una moneta che si svaluta. E dunque? La soluzione per l'estero è comprare le azioni giapponesi col cambio coperto. Se le azioni giapponesi comprate dall'estero sono in valore inferiori agli acquisti di obbligazioni dei giapponesi, ecco che lo yen si svaluta e il gioco è fatto.

4- Il dollaro

L'Euro area ha una bilancia dei pagamenti correnti in avanzo. Ciò che non avviene fra gli Stati Uniti e la Cina. La Cina esporta (è in avanzo) più di quanto importi dagli Stati Uniti (sono in disavanzo) e la differenza, per mantenere in cambio, si trasforma in titoli del Tesoro degli Stati Uniti in mano ai cinesi. Altrimenti detto, se i cinesi non comprassero i titoli del Tesoro statunitense con il controvalore dei dollari in eccesso, avrebbero una montagna di dollari che preme sul mercato dei cambi spingendo al rialzo il yuan, ciò che ridurrebbe la capacità competitiva delle merci cinesi. I cinesi forzano, tenendo fisso o semi fisso il cambio, la propria crescita esportando dei beni che non avrebbero un gran domanda sul mercato interno nelle prime fasi dello sviluppo, mentre gli Stati Uniti possono comprare dei beni a minor prezzo. Naturalmente c'è un limite alla detenzione di titoli del Tesoro da parte dei creditori. Un conto è averne pochi, altro è averne tantissimi, come è il caso della Cina (insieme ai cinesi della “diaspora” come Hong Kong, Taiwan, e Singapore), oltre che il Giappone. Oltre un certo limite, si crea una condizione di “mutua distruzione assicurata”. Come ai tempi della Guerra Fredda, da un lato il possesso di troppi missili rendeva impossibile la guerra, ma dall'altro tutti ne avevano paura. Nel caso dei crediti asiatici, questi possono minacciare di non rinnovare il debito statunitense che va in scadenza, ma, sempre in questo caso, incorrerebbero in gravi perdite, se provassero a rimpatriare la valuta, cambiandola nella moneta nazionale. Potrebbero perciò vendere i titoli e lasciare il contro valore negli Stati Uniti, ma, in questo caso, potrebbero essere oggetto di ritorsioni. Insomma, abbiamo un equilibrio instabile e perciò insoddisfacente.

La previsione, vero quanto fin qui detto, è che il dollaro si manterrà “debolmente stabile” sia verso l'euro sia verso lo yuan. In termini di bilancia commerciale è debole, e dunque si dovrebbe deprezzare, ma l'afflusso di capitali, almeno in parte, lo rinforza. Mette conto ricordare però che il dollaro potrebbe ad un certo punto avere un “guizzo”. Bisogna, infatti, aggiungere al ragionamento economico delle bilance dei pagamenti un ragionamento strettamente finanziario, la cui importanza emergerà quando la politica monetaria statunitense diventerà meno lasca. Con la riduzione degli acquisti di obbligazioni da parte della Federal Reserve, i rendimenti statunitensi dovrebbero risalire e dunque, diventando più competitivi, i capitali, soprattutto quelli finiti nei paesi emergenti, torneranno negli Stati Uniti, in questo modo rafforzando temporaneamente il dollaro. Il ragionamento completo sul dollaro è qui (9).

Link e note:

(1) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3631-greenspan-cambia-visione.html

(2) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/ricerche/3670-l-attivo-delle-banche-centrali.html

(3) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3656-i-nuovi-rendimenti-negli-usa.html

(4) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/ricerche/3657-i-nuovi-rendimenti-negli-usa-ii.html

(5) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3626-metrica-dei-crash.html

(6) Si accende il dibattito intorno al livello delle quotazioni della borsa statunitense. E’ alto, troppo alto, e, se troppo alto, quanto alto. La nostra opinione è che siamo vicini al livello dal quale – negli ultimi quaranta anni – la borsa è scesa (5). Il maggior investitore al mondo – Black Rock (BR) – ha un’idea simile, anche se espressa in forma prudente. Una premessa tecnica. BR calcola un indice che mette in relazione la distanza fra obblighi delle imprese  e fondamentali delle imprese ( = capitalizzazione di borsa più i debiti in essere sul margine lordo = EV/EBITDA) con l’indice che misura la volatilità attesa delle azioni (il VIX). Ossia, BR mette in relazione la distanza fra obblighi delle imprese quotate verso gli azionisti e i creditori (qui si misura la leva finanziaria) con la loro capacità di generare reddito (maggiore la distanza, maggiore il rischio) con le aspettative. Se il VIX è basso, ossia se il mercato si attende che la volatilità sarà bassa, ecco che si ha la famigerata “compiacenza”, ovvero il modesto timore che i prezzi possano in futuro “ballare”. Perciò: maggiore è la distanza fra la capitalizzazione e il debito delle imprese rispetto al loro reddito e maggiore è la compiacenza (minore il VIX), maggiore è il rischio che le cose possano rigirarsi verso il basso, in presenza di un evento nuovo ( = non scontato dai prezzi correnti). Fatta la premessa tecnica ecco i numeri. Oggi siamo al livello del 2000, ma sotto il livello del 2006, mentre siamo sopra il livello degli ultimi venti anni – ovviamente escluso il 2000 e 2006. Siamo a un livello molto alto, anche se non altissimo, come era nel 2006 : http://www.zerohedge.com/sites/default/files/images/user3303/imageroot/2013/12/20131210_black1.jpg88

(7) Una politica di austerità spinge verso le riforme. Osserviamo il secondo blocco di grafici, della Banca dei Regolamenti Internazionali, il III.8. I Paesi che hanno meno subito la pressione dei mercati finanziari – il grafico a sinistra - sono quelli che hanno meno reagito alle raccomandazioni di riforma (approssimate dai suggerimenti del “Going for Growth” dell'Ocse). L'asse orizzontale misura il rendimento puntuale dei titoli di stato prima e dopo la crisi. Se questo è sceso – e dunque si è a sinistra rispetto all'asse dello zero – allora le raccomandazioni non sono state seguite e viceversa. Il grafico a destra mostra come le raccomandazioni siano seguite quanto maggiore è la recessione. Le riforme si fanno quasi sempre (“quasi sempre” rende a parole il senso della statistica riportata) se le cose vanno davvero male - il costo del debito pubblico che aumenta e la crisi che morde - altrimenti si preferisce lasciare il mondo tale e quale, sperando che col tempo tutto si aggiusti. Torniamo alle riforme. Fa parte del senso comune l'affermare che lo sviluppo economico sia tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono vincoli, allora le innovazioni si diffondono più facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi solo se la forza lavoro si sposta - senza troppe frizioni - dai vecchi ai nuovi settori. Per una definizione della regolamentazione dei mercati dei prodotti e della tutela dell'occupazione si veda il grafico III.7. Bene, misuriamo questa affermazione – il primo blocco di grafici è il III.5. Il grafico a sinistra mostra sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti – man mano che ci si sposta a destra la regolamentazione diventa più stringente - e su quello verticale la produttività del lavoro dei diversi Paesi. Il grafico al centro - mostra sempre sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti e su quello verticale il tasso di occupazione dei diversi Paesi. Ne deriva una retta di regressione che si muove dall'alto a sinistra verso il basso a destra, ossia si evince che tanto più il mercato dei prodotti è regolamentato tanto minore è la produttività e l'occupazione. Il terzo grafico collega la regolamentazione del mercato del lavoro al tasso di occupazione. Anche qui si evince che il tasso di occupazione è tanto maggiore tanto minore è la regolamentazione del mercato del lavoro. Abbiano visto che le affermazioni di di senso comune sono molto vicine alla realtà, almeno nel breve termine.

(8) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3570-riecco-l-europa.html

(9) http://www.linkiesta.it/dollaro-mercato-valute-evoluzione